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L'Osservatore Romano - La recensione di Biancamaria Ceschin
 

Quel «vento del cielo» che redime da ogni peccato
«La morte del mondo nella storia di Dio» è stato definito questo Vento del cielo di Emlyn Williams, drammaturgo, attore, regista scozzese, morto non molti mesi fa a 81 anni. Poco conosciuta in Italia, molto apprezzata, in patria e in Francia e in America, l'opera è rappresentata in questi giorni a San Miniato, in occasione della 42° «Festa del Teatro».
San Miniato: negli anni '40-'50 lavorava in splendido isolamento, senza la concorrenza di manifestazioni parallele; oggi queste superano la trentina, ma nessuna è riuscita ad emularla nella diversificazione che essa ha sempre attuato in ciò che viene comunemente definito «spettacolo estivo». E scopo primario e fondamentale dell'Istituto del Dramma Popolare, sorto nel 1947, è stato ricercare e diffondere, una verità che si incarna nella sobria, verificare quanto, nel teatro moderno e nella realtà contemporanea, ci sia ancora di cristiano, d'impegno etico. In questa linea si colloca Il Vento del Cielo. Calorosi consensi riscosse il lavoro al suo apparire; adesione spiegata e riassunta dall'opinione espressa da un noto personaggio: «Vorrei essere molto ricco per comperare tutti i posti del suo teatro per tre mesi e riempire la sala di spettatori che vogliano — o anche non vogliano — vedere il suo dramma, perché possano conoscere verità che stanno al centro del credo cristiano e della condotta dell'uomo ».
Anche il manifesto di Salvatore Fiume esprime e sintetizza il significato dell'opera, come ha spiegato l'artista stesso: «Ho usato i due toni fondamentali del rosso e dell'azzurro, quasi a voler significare l'evoluzione dalle tenebre alla luce, dal regno del Male a quello del Bene...». Non a caso questo sfondo fortemente colorato è dominato dalla figura di un adolescente: « Il ragazzo come restituzione di autenticità, recupero di bontà e di innocenza» — ha spiegato nel suo appassionato intervento il direttore artistico Marco Bongioanni. E un ragazzo è il silenzioso fulcro intornio a cui si sviluppa il dramma. Ideato dopo un viaggio compiuto da Williams in Palestina, mantiene forti connotazioni autobiografiche: il villaggio gallese dove nacque l'Autore (Rhewl Faur o Big Road) è diventato Blestin; la sua popolazione si dedica all'agricoltura e alla pastorizia (il padre di Emlyn era contadino, la madre domestica). Guerre e colera — siamo nel 1856 — hanno decimato le giovani generazioni, bambini non ne nascono più. Blestin è un paese di vecchi, di sconfitti, di individui senza più fede, né speranza, né ideali.
I personaggi sono chiaramente simbolici perché Williams ha voluto esprimere, attraverso essi, l'agonia della società contemporanea nel dipanarsi delle singole tragedie umane. Ecco allora Dilys Parry (Nunzia Greco) che è quasi la personificazione di Blestin: dirà di essere morta nella morta casa, nel morto villaggio perché privata di ogni affetto, di ogni scopo nella vita, avendo perduto il marito e il figlio che portava in grembo. Attorno a lei si muovono altri esseri apparentemente umani, che però ben presto rivelano la loro emblematicità: anzitutto Pitter (Arnoldo Foà) e Ambrose Ellis (Aldo Reggiani), rispettivamente proprietario e direttore di un Luna Park. Ambrose, «uomo molto impegnato e maledettamente determinato», si è costruito un'armatura per difendersi. Da se stesso forse, da quel se stesso che, giovinetto, aveva ricevuto dei «messaggi» che poi aveva voluto soffocare per l'ambizione del potere e la bramosia di ricchezza; alimentati dalla vicinanza di una donna ambiziosa, mrs. Lake (Paola Bacchetti) che rappresenta la Tentazione. Pitter è invece piuttosto lo storico — o il corifeo — che annuncia e commenta gli eventi, per i posteri, senza però esserne coinvolto: tanto che può sorridere ai funerei discorsi di Dilys, «una donna fragile come il guscio di un uovo». Questi due strani personaggi sono giunti nel villaggio alla ricerca di un'attrazione per il loro circo. Hanno sentito parlare di un «nano musicale», capace di arcane armonie e indagano con comportamenti quasi da film poliziesco, interrogando gli abitanti, primo fra tutti Evan Howel (Luciano Fino). E' il portavoce del villaggio, quasi un profeta; dopo quanto è accaduto a Blestin — la guerra, una tragedia sul mare, la peste — annuncia un profondo mutamento come aveva scritto l'evangelista Giovanni, al capitolo quinto: «In verità vi dico che verrà il tempo, ed anzi è ormai giunto, che i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quanti l'avranno udito, vivranno...». : Il «nano» non è tale, ma è (Mattia Cominotto) il tredicenne figlio della governante di Dilys, la cui misteriosa dolcezza penetra in chi lo avvicina e sorprende anche sua madre, la straordinaria Bet (Angela Cardile), sommessa controfigura di Maria di Nazaret. Così come Gwin lo è di Gesù. Un vento apportatore di energie nuove esploderà all'improvviso (a San Miniato, la brezza della sera soffiò compiacente durante questo momento centrale dell'evento scenico) e Menna, nipote di Dilys (Alessandra Celi), ma in realtà in funzione di angelo annunciante, così come aveva recato i messaggi di morte, porterà ora quelli dell'amore, della vita che rifiorisce anche attraverso veri e propri miracoli di resurrezione.
Come hanno detto gli adattatori del testo, Marco Bongioanni e Franco Meroni (che della pièce è anche regista), Williams ha inteso trasferire la vicenda dal palcoscenico alla coscienza dello spettatore, sottolineando che la vera tragedia sta nel non accettare la morte come evento naturale. Messaggio che la regia ha voluto proporre senza enfasi, senza retorica, in modo lineare, quasi come se lo volesse non recitato dagli attori, ma vissuto da ogni singolo spettatore. Per questo sono stati introdotti un prologo ed un epilogo di suggestiva resa: la scena — anch'essa simbolicamente triangolare e incombente sulla platea — si apre per mostrare una scala, da cui scenderanno Madre e Figlio per poi risalirla, dopo il sacrificio che il Figlio di Dio dovrà affrontare di nuovo per salvare l'umanità ancora una volta. Gwin infatti, morirà perché Dilys ritrovi la gioia d'amare e Ambrose recuperi la sua vocazione più genuina, malgrado il Tentatore, in vesti femminili, cerchi ancora di strapparlo alla Verità.
Difficile formulare un giudizio separando testo e rappresentazione. Non si riesce ad individuare se, come annunciato, si sia riusciti «a sfuggire a quella tentazione di lettura realistica e superficialmente miracolistica» che si voleva evitare.
Accettata l'ottica della parabola e del simbolo, di miracolistica si potrebbe forse parlare verso la fine del dramma, quando resurrezioni di morti, guarigioni di appestati si accavallano, si susseguono a fatti nuovi, a interventi divini, tutti raccontati da Menna con impetuoso e rapido crescendo emotivo in modo che non si fa quasi in tempo a cogliere il vero senso di quella redenzione continua che Emlyn Williams ha chiamato «vento del cielo». Un vento armonioso, pieno di voci arcane, che cancella ogni male e redime ogni peccato. Se la morte del mondo appare imminente, non abbandoniamoci alla funerea e desolata apatia degli abitanti del villaggio di Blestin: Dio manderà suo figlio a recuperarci alla vita.
La lettura scenica della vicenda significa comunque speranza di redenzione e di riscatto in una società malata e corrotta. E' questa l'attualità che il dramma contiene: il concetto che molti di noi, troppi, sono «come le talpe che scavano alla cieca mentre, a pochi passi dal loro muso, c'è l'aria aperta, il sole, la pioggia che tutto lava e purifica... ».

BIANCAMARIA CESCHIN, L'Osservatore Romano 22 luglio 1988




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