La recensione
Il pellegrino del nordest
Alla presenza di un folto pubblico si è inaugurata sulla piazza del Duomo la XXVII Festa del Teatro con la recita di una novità assoluta del drammaturgo brasiliano Alfredo Dias Goines Il pellegrino del Nordest ( «O Pagador de Promessas» ), brillantemente tradotta da Ruggero Jacobbi, il quale ha anche allestito lo spettacolo.
L'opera, considerata una fra le più ricche di contenuto della moderna drammaturgia latino-americana (la tua trasposizione cinematografica con il titolo «O Pagador de promessas» fece vincere al regista Anselmo Duarte il Festival di Cannes nel 1962), cogliendo lo spunto dalle ancestrali commistioni religiose fre fede cattolica e credenze animistiche del «candomblé» angolese — a cui è tuttora legata la popolazione carioca — indica in un modo quasi apologetico le sofferenze e i soprusi a cui la gente umile è sottoposta da chi esercita il potere sovente con il plauso degli uomini di Chiesa.
Vi si narra la penosa ed emblematica storia del contadino José del somaro, il quale — per assolvere un sacro voto — porta sulle spalle per sette interminabili leghe una croce pesantissima per depositarla, in segno di devozione e di gratitudine per la grazia ricevuta, ai piedi dell'altare di Santa Barbara a Bahia de Todos os Santos. In quella lunga marcia estenuante lo accompagna — affettuosa ma ormai stanca ed insofferente — la giovane moglie Rosa, che di fronte al tempio ancor serrato nell'alba nascente insiste perché il marito consideri infine concluso il suo pegno concedendo ad entrambi un po' di agognato riposo. Ma José sente di non poter recedere da quella sua solenne promessa, che ha voluto rendere più significativa vendendo una parte dei suoi poderi e distribuendone il ricavato ai braccianti più poveri.
La sua è una dimostrazione di fede ingenua, primitiva, profonda e sincera, ma il vicario padre Olano, quando viene a sapere che il voto è stato pronunciato durante la festa dello Jansàn (il nume africano delle folgori e del fuoco) come ringraziamento per la straordinaria guarigione del somaro Nicola, a cui José è legato da un profondo affetto, condanna il suo proposito come un atto sacrilego, come una orrenda collusione demoniaca e gli farà sbarrare l'accesso alla chiesa. Invano il contadino si prosterna dichiarandosi profondamente cattolico, invano supplica, implora, inveisce, tempesta di pugni violenti il portone del tempio. Nessuno sembra voler credere alla sua fede autentica, che viene considerata come una peccaminosa stortura o come un atto di pazzìa o come un oscuro proposito sovvertitore se non piuttosto un caso unico da strumentalizzare giornalisticamente per il gusto dello scandalo. Fra la folla, che lo guarda con simpatia, c'è chi si fa strada per sollecitarlo anche a confidare nella terribile potenza della divinità pagana.
Ed intanto c'è pure chi approfitta del momento per insidiargli la moglie ormai ridotta allo stremo o per scommettere sul risultato finale della sua azione testarda ed inconsueta. Alle autorità religiose — che lo esortano al ravvedimento — subentrano quelle poliziesche che lo minacciano di gravi sanzioni e che sono pronte a sparare su di lui quando José, al colmo della esasperazione, tenta per un'ultima volta di entrare in chiesa con la sua croce enorme e pesante.
Quando lo vedrà caduto esamine sul sagrato, vittima innocente di una nuova ingiustizia, la folla insorgerà decidendo di concedergli subito il suo ingresso trionfale nel tempio, con il suo corpo adagiato su quel legno, simbolo di ignominia e di amore estremo, come un nuovo piagato Cristo dei poveri. Allorché nella notte sul sagrato ormai deserto, Rosa disperata e sola urlerà contro padre Olano, questi le esprimerà il suo oscuro disorientamento per quanto accaduto, di cui è anche per lui difficile penetrarne il segreto.
Il dramma del Dias Gomes fa avvertire tutta la forza delle antiche affioranti superstizioni, a cui la povera gente rimane pur sempre aggrappata in un estremo bisogno di difesa e di giustizia, e nel suo sviluppo presenta non pochi momenti idi autentica bellezza poetica o di sottile amara ironìa, a cui però fanno da inciampo certe compiaciute insistenze pseudo comiche ( la gonfiatura giornalistica del «fatto» ), che non giovano all'assunto. La regìa idi Jacobbi ha spremuto dallo spettacolo tutte le possibili suggestioni, ma forse ha accondisceso un po' troppo al desiderio di compiere con esso «un atto d'amore» verso la terra in cui aveva trascorso gli anni più belli della sua giovinezza (era stato in Brasile 14 anni), per cui ha inserito nello spettacolo diversi incastri di sapore folcloristico.
Renato De Carmine ha impostato il suo José con bel vigore di segno facendone avvertire tutto il fervore e tutta la disperata sofferenza Elena Cotta è stata una Rosa affettuosa e perduta, vibrante ed angosciata, mentre Sarah Di Nepi ha incarnato con acuta intuizione «Mia Zia», la frenetica evocatrke di arcane potenze; con dignità e calore ha interpretato il suo padre Oliano Carlo Alighiero. Nel giusto impegno gli altri fra cui occorre ricordare Olga Gherardi, Gioacchino Soko, Guido Paolo Marziali, Erasmo Lo Presto. Molti applausi.
BRUNO DE CESCO, L'Arena, Verona, 21 Luglio 1973
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