La recensione
Fede e poesia trasfigurano un macchinoso dramma storico
Se Paul Claudel non fosse stato un poeta ma solo uno scrittore di drammi edificanti a maggior gloria di Dio, difficilmente da un argomento come quello de L'ótage avrebbe potuto venir fuori qualcosa di più elevato d'un dramma storico a forti tinte, e forse lo spirito conservatore del politico vi sarebbe apparso più evidente dello spirito religioso del cattolico.
Per rendersi conto degli inviti alla volgarità teatrale contenuti nella trama de L'ostaggio, basta pensare che c'è in scena un Papa, Pio VII, che un aristocratico ha rapito a Napoleone, la cui ombra incombe dietro le quinte; c'è questo aristocratico, unico erede del gran nome dei Coùfontaine, che intriga per restaurare in Francia la monarchia legittima; c'è un plebeo, Turelure, che è salito in alto con la Rivoluzione, ma è pronto a rinnegarla per soddisfare le sue mire ambiziose; c'è la nobile fanciulla Sygne, che si è promessa al cugino Coùfontaine, ma subisce il ricatto di Turelure per salvare il Papa; c'è infine uno scambio di pistolettate tra l'aristocratico e il plebeo, nel quale l'aristocratico soccombe insieme a Sygne che s'è gettata tra i due, e trionfa il plebeo che dal Re, tornato sul trono di Francia, riceve l'eredità dei Coùfontaine in premio del suo tradimento. Senza contare il romantico inizio del dramma, durante una notte di tempesta, in un'abbazia abbandonata dove Sygne s'è rifugiata con quanto ha potuto salvare dei beni familiari, e dove il cugino conduce il Pontefice rapito all'Usurpatore; nonché lo spettacoloso finale con Sovrani, Principi e Vescovi. Il buon Sardou, con una materia siffatta, sarebbe andato in brodo di giuggiole.
Ma non c'è materia, per quanto bassa, che un poeta non possa innalzare nella luce della poesia. E Claudel è poeta proprio ne L'ostaggio, il più teatrale dei suoi drammi, perché qui, almeno nei primi due atti, la sua arte trova un'intima forza che attira anche chi è fuori del sistema filosofico-religioso claudeliano, e la religiosità di questo scrittore non si manifesta come negli altri suoi drammi in metafore letterarie, trasfigurazioni liriche e contemplazioni estatiche, ma crea un rapporto diretto tra l'umano e il divino rifacendosi alle fonti più pure del messaggio cristiano. Qui insomma, dalle nebbie del cristianesimo intellettualistico e programmatico di Claudel, irrompe un raggio di quella fede primitiva che illuminò il canto cristiano di Jacopone.
In tutto il teatro di Claudel si avverte la mira a creare un clima di religiosità in cui i personaggi — quelli che conducono con vigore la loro vita sulla strada assegnata, essendo il fine della vita non il benessere ma la pace — crescono di statura fino a divenire eroi e santi; ma poche volte questa ascesa dall'umanità comune a una umanità superiore si esprime con tanto patetica potenza come nella sapienza evangelica di Pio VII, e nell'eroico sacrificio di Sygne.
Sono le due scene più alte del dramma: quella, al primo atto, in cui Coùfontaine vorrebbe indurre Pio VII a riparare in Inghilterra presso Luigi XVIII, e il Papa vecchio e sofferente rifiuta con dolce fermezza di riparare in alcun luogo che non sia Roma, sede assegnatali dalla Provvidenza; e l'altra di Sygne, nel secondo atto, cui il curato Badilon porta l'esempio del sacrificio di Cristo, parlandole con una semplicità che umilia nel cuore di Sygne ogni fierezza di casta, mentre vi cresce una forza morale che la porta ad accettare il matrimonio con Turelure, sacrificando liberamente la propria libertà spirituale e fisica a quella del Pontefice.
Dopo questi due culmini il dramma declina nel terzo atto, dove l'azione torna ad avvolgersi nei veli di quel simbolismo da cui Claudel è tratto troppo spesso a tradire la propria massima del «non pensare, sentire».
Ma forse anche ne L'ostaggio, che come s'è detto è il più teatrale dei drammi di Claudel, i pregi sono soprattutto letterari, di forma più che di contenuto, se neppure l'edizione sanminiatese, affidata ad attori eminenti o di provato valore come Lillà Brignone, Gianni Santuccio, Carlo D'Angelo e Gualtiero Tumiati, è riuscita a ricreare l'incanto che le sue scene più belle suscitano alla lettura. A meno che, com'è più probabile, il difetto sia nella regia di Mario Ferrerò, che ha mirato assai più all'esteriorità del dramma che alla sua interiorità, più all'elemento umano che a quello religioso. Se Lillà Brignone ha dato un disegno fermo e dolente alla figura di Sygne, se Gianni Santuccio ha reso tanto umanamente il torbido personaggio di Turelure da renderlo in fondo simpatico, se Carlo D'Angelo s'è studiato di attenuare la retorica degli atteggiamenti di Coùfontaine, inferiore al grave compito che si era assunto ci è parso Grazio Costa nella parte di Pio VII che, seppure compare sulla scena una sola volta, è il personaggio chiave del dramma, quello da cui si genera il clima
religioso che dovrebbe avvolgerlo. Costa ha recitato da regista che insegna all'attore i toni e i modi della recita, lasciando all'attore di metterci la sua arte e passione di interprete; dizione ben scandita, la sua, ma puramente formale. Invece fervida e sofferta è stata nella parte del parroco Badilon la recitazione di Guarderò Tumiati, al quale spetta il merito di aver fatto per il primo conoscere L'ótage in Italia, trent'anni fa.
Il finale ha deluso chi si aspettava l'ingresso del Re, col seguito di Principi, di Dignitari e Vescovi, perché a San Miniato è stato adottato il secondo finale, riscritto da Claudel a molti anni di distanza come fece anche per L'announce a Marie: un finale macabro, che sostituisce al trionfo di Turelure la disperazione di lui dinnanzi al silenzio ostile di Sygne morente, dalla quale invoca una parola d'amore, e la scuote, e grida, finché non s'accorge di abbracciare un cadavere.
L'antica chiesa di San Francesco, nel cui vasto interno è stata tenuta la recita, era gremita d'un scelto pubblico, che ha festeggiato il regista e gli interpreti.
ARNALDO FRATEILI, Sipario, Milano, Ottobre 1957
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