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La recensione di Nicola Ciarletta
 

L'angoscia della giustizia nell' animo di un Rabbino
Gli spettacoli di San Miniato quest'anno si svolgono a Pisa, per celebrare — si dice — il centenario del Santo Patrono della città. Lo spettacolo in corso, andato in scena mercoledì sera nella suggestiva e amara cornice del Politeama pisano, barbaramente distrutto — com'è noto — dall'ultima guerra, concerne un dramma israeliano che ha per tema appunto la guerra. Talché le macerie del Politeama, entrando direttamente nel cuore dell'opera, ne hanno integrato le sobrie scene, dovute allo scenografo Emanuele Luzzati.
Il titolo del lavoro è La guerra dei figli della luce; e il suo autore è Moshe Shamir, travagliato e fecondo scrittore appena quarantenne, cresciuto a Tei Aviv e attivamente partecipe alla fondazione dello stato di Israele. Egli era già conosciuto in Italia per il romanzo storico Un re di carne e di sangue pubblicato da Feltrinelli. In questo romanzo si descrive la figura di Alessandro Janneo, re di Giudea nel I sec. avanti Cristo, salito al trono fra l'entusiasmo del popolo che nelle innumeri sue doti aveva visto il prescelto da Dio, e divenuto in seguito ambizioso e spietato tiranno. La guerra dei figli della luce è la continuazione del Re di carne e di sangue, ed incomincia nel punto in cui, scoppiata una lunga e crudele guerra civile, i ribelli hanno chiesto e ottenuto aiuto da Demetrio, re della Siria Seleucidica e nemico del popolo d'Israele. Con l'aiuto di Demetrio, il potere di Janneo comincia a cedere, ma una lotta improvvisa sorta fra i Seleucidi distoglie Demetrio dalla Giudea e i ribelli, privati del loro forte alleato, vengono tratti in ceppi ed uccisi da Janneo, che subdolamente li attira a sé dietro giuramento che tratterebbe con loro la pace. Col trionfo di Janneo e la sanguinante sottomissione del popolo israeliano alla sua tracotante ambizione, termina il lavoro.
Ma non si tratta fin qui che della trama. Ben più profondo e accidentato di problemi e di dubbi ne è il fondo. Quasi tutti i personaggi, si può dire, o almeno i principali, hanno un rilievo simbolico e ideologizzante. Primo fra tutti, il Gran Rabbino Simeone Ben Shetach. Questi non ammette che i fratelli facciano guerra ai fratelli e, tanto meno, che chiamino in loro soccorso un nemico del popolo. «Non è possibile — egli dice — che col male si possa conseguire il bene»: cedano perciò i ribelli, si arrendano a Janneo e chiedano di trattare con lui la pace per ricacciare Demetrio dalla Giudea. Egli è, dunque, per la giustizia assoluta, quale è dedotta invisibilmente dallo spirito della Legge. Nulla sa ancora dei diritti della coscienza individuale; sa solamente che il popolo, di cui egli è attivo custode, deve essere unito: «Meglio subire l'ingiustizia di un fratello che accettare l'amore di un nemico».
Di fronte a Simeone sono insieme Janneo, il tracotante tiranno, e Jossi, il capo dei ribelli. In un momento in cui la guerra sembra capovolgere la fortuna di Janneo, quest'ultimo, Jossi, pare improvvisamente cambiare, come a suo tempo Janneo, e da leale paladino della giustizia sembra mutarsi in un pericoloso arbitro della giustizia. È questa una prova, secondo la morale di Simeone, che la forza non cura il male, ma ne contagia le piaghe. Perciò il rabbino è contro Janneo ed è contro Jossi: e, forse, contro Jossi anche più che contro Janneo. È Jossi, infatti, che ha chiamato il nemico in casa.
Tuttavia il finale non soccorre la tesi di Simeone, anzi la mette in crisi. La disfatta di Jossi, mandato a morte, sublimando col martirio la figura del capo dei ribelli, addita al tempo stesso la vanità della giustizia assoluta che è incapace di vincere l'ingiustizia. Nell'epilogo — che è la parte più bella, anche perché la più lealmente sofferta, del dramma — Simeone resta solo, come i grandi personaggi della tradizione teatrale, solo e delirante, prigioniero tra le contraddizioni della sua morale. Ha voluto il bene, ha realmente operato per il bene: ed ha intensificato il male. Il sangue che egli aveva voluto arginare, s'è moltiplicato come i frutti di un angoscioso e nero miracolo. La sua terza via, la via della concordia intenzionale, è stata la via della rovina, sulla quale ha continuato ad allignare la pianta malefica dell'orgoglio di Janneo. Il suo amore era, dunque, lo strumento dell'odio; la sua giustizia unitaria, quello della iniqua separazione; i diritti da lui invocati, ignobili privilegi.
Quantunque l'approdo di questo dramma non sia del tutto chiaro (è un annuncio, la disperazione di Simeone, del cristianesimo che seguì, e ineluttabilmente torna a seguire, al crudo legalismo giudaico; oppure è una denuncia della astrattezza metafisica dello stesso cristianesimo in nome dei prosperanti canoni della dialettica storica?), quantunque — dicevo — l'approdo di questo dramma non sia del tutto chiaro, pure è evidente nell'Autore la esigenza di romperla col passato per camminare in avanti (anzi per camminare tout-court) e al tempo stesso di tener viva la continuità della storia, tenerla accesa come una fiaccola olimpica, per poter camminare, anzi correre in avanti. E, in questo senso, ci soccorre la frase di una delle donne, Noemith, la moglie di Jossi, che, come tutte le donne, le madri, le sorelle, le spose, le figlie, disdegna la guerra, che è sempre guerra di tenebre e mai di luce: «Negli anni angosciosi ho appreso questo: che non c'è che una cosa vera nel mondo: un uomo, una donna, i loro figli, e Dio che decide delle loro esistenze».
Prolisso forse, specie nella prima parte, il dramma, sostanzialmente statico e monologizzante, si solleva alla fine col lamento di Simeone. Certo Simeone è il personaggio più riuscito, e molto bene lo ha reso Glauco Mauri, che anche nel trucco e nel portamento evocava un antico interprete della Legge. Quanto a Janneo — almeno dalle parole che dice — egli è ben delineato nella sua figura di antagonista; ma perché affidarne la parte ad un attore eccellente senza
dubbio, ma più incline alle parti comiche, come Mario Scaccia? Jossi è, invece, un personaggio un po' schematico, forse perché non è del tutto chiaro il ruolo che nel dramma ha la forza, ovviamente limitatrice perché determinata dall'azione. Gianfranco Ombuen ha impersonato con dignitosa fierezza questa parte di Jossi. Delle due donne, Salomite (moglie di Janneo e sorella di Simeone) e la già citata Noemith, quest'ultima è certamente il personaggio più riuscito: nella sua fragilità disarmata, essa integra la disperata angoscia di Simeone. Entrambe le donne avevano ad egregie interpreti Valeria Monconi (Salomite) e Lucia Catullo (Noemith). Gli altri personaggi, da Shemaia, discepolo di Simeone (attore Armando Spadaro) ad Aba Saul, sacerdote dei ribelli (Raffaele Giangrande), ad Antipa, governatore di Edom (Camillo Milli), ad Aba Tailon, asinaio arabo (l'ottimo Sergio Bargone), sono personaggi laterali, quantunque incisamente descritti.
A parte la mancata individuazione del personaggio di Janneo, magnifica è stata la regia dello spettacolo, dovuta a Franco Enriquez. E magnifici i costumi e le scene del già menzionato Emanuele Luzzati. Musiche originali dell'edizione di Tel Aviv.
Nicola Ciarletta, Il Paese, Roma, 25 Agosto 1961




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