L'oscuro delitto di James
A testimoniare quanto il cattolicesimo di Graham Greene non ami avvalersi di moralismi e di teoremi abilmente trascendenti, e quanto invece il suo talento sia stato talora più incline a fiutare i tormenti, i dubbi, le reticenze di chi non fa professione di fede, ecco in decorosissimo stile, e piacevole, la proposta da noi quasi inedita di un suo testo teatrale, The Potting Shed dato in "prima" nel '57 a Broadway, che aggiunge adesso nuova dialettica e una tensione anche molto spettacolare alla Festa del Teatro sanminiatese, giunta al quarantunesimo vaglio estivo.
Il Capanno degli attrezzi così suona in italiano il titolo dell'opera ritradotta con efficace disinvoltura ed empirismo di linguaggio da Alvise Sapori (che stavolta adotta il finale londinese, "processuale", così rimediato dallo stesso autore per implicare tutto un nucleo, e non solo le sorti individuali), questo lavoro che il regista Sandro Bolchi, già a suo tempo realizzatore di una versione televisiva, concepisce come un odierno "miracle play", ma anche come un giallo, ha la prerogativa accattivante di non agitare problemi di religione, ma di presupporli ai margini di tanti alibi, di tante esclusioni, di tante impossibilità o inconoscibilità di amare.
E c'è di mezzo un segreto, una verità scomoda e censurata che fa fatica a tornare a galla, sicché il dramma è imperniato proprio sul suspence di una decifrazione, di uno scavo che dilania e insieme poi ridesta le coscienze di una famiglia. Una famiglia squisitamente inglese, in una villa mal ridotta inglese il cui patriarca, grande assertore darwinista, è allo stremo. Greene dunque non fa appello ai credenti, a un qualsivoglia stato di grazia già attecchito. Greene batte il terreno dei materialisti, dei laici, dei senza dio, e però, qui sta il suo enorme intuito umano e letterario, fa sentenziare a un certo punto che un miracolo può provocare più di un caso d'omicidio, nell'era che corre.
E, fatto arcano, non razionale, in casa Callifer è avvenuto. Se ne hanno le prime avvisaglie quando nel giardino stinto del cottage (ottima scenografia naturale sulla piazza del Duomo di San Miniato, in una specie di teatro di posa all'aperto con frontespizio, staccionata e vimini), prende forma sempre più corale, e però disturbata, la veglia al leader che sta spegnendosi: ad essere presenti e militanti sono la moglie devota Mary, il figlio John con la nipotina Anna, l'amico e discepolo Bastan, l'ex moglie (Sara) d'un altro figlio invece assente, James, non convocato in quanto estromesso, portatore di scompensi, di un ricordo da seppellire.
Avvertito dall'innocente Anna che poi sempre più calzerà i panni di detective, mettendo tutti a disagio, e stranito lui stesso, James invade il campo, ma non gli è dato modo di salutare il padre morente. Vige una remora, un off limits. Perché lui, anni prima, se ne era andato abbandonando lì la giovane consorte, privo di momenti affettuosi, in preda a frustrazioni mai chiare, congedato quasi volentieri dai suoi. Mentre l'intangibile capotribù agonizza, è soltanto la ragazzina a far aleggiare di nuovo la voce di un episodio spaventoso, occorso nel capanno della villa, protagonista lo zio James nella sua infanzia.
Cambia scena, e vediamo il parente emarginato cercare inutilmente soccorso da un analista, prima che la «rivelazione» cominci ad illuminarlo, e sarà quando una domestica sopravvissuta lontano gli riferirà d'un suo adolescenziale tentativo di suicidio, a quattordici anni, in quel ripostiglio, col laccio al collo, e salvato solo dalla preghiera di Padre William, uno zio prete già malvisto per la sua scelta dottrinale.
Graham Greene ci fa scorgere il meccanismo con una maestria e una chiave che francamente, direi, è mancata persino ai nostri commediografi più cattolici. Il successivo dialogo, quasi un'agnizione, con lo zio parroco altrettanto alla macchia, senza più dedizione, svela che al gesto disperato del giovane (violentato dal carisma paterno) lui già in abito talare promise in cambio, pur di averlo salvo, il suicidio della propria fede, tanto che a miracolo avvenuto si dissipò esercitando solo alla peggio il suo sacerdozio.
L'incontro fra nipote e zio è una scena straordinaria di teatro. Ambedue mettono un po' fine a un debito di smarrimento, e toccherà agli altri, alla moglie riguadagnata, alla madre che ridimensionerà man mano le certezze dello scientismo, culminare in un summit di famiglia assolutorio, peraltro non edificante.
Pregevole il montaggio di Bolchi, anche adattatore, e avvincente la sua regia. James è un Carlo Simoni ambiguo ed esangue. Il personaggio della madre, arcigna e anche provvida, è perfetto appannaggio di Regina Bianchi. Mario Maranzana sa dare corrusca pena a un prete in crisi. Tutte in semitoni adeguati le prove degli altri, di Margherita Guzzinati (Sara), di Giorgio Bonora, di Joyce Leoni, di Enrico Baroni, di Sergio Fiorentini, di Rina Franchetti e Micaela Giustignani. Scene e costumi un po' da thrilling anglosassone di Aldo Buti, non meno delle musiche di Luciano Bettarini.
RODOLFO DI GIAMMARCO, La Repubblica 19/20 luglio 1987
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