Perché «Ramon» va in scena
Luigi Santucci parla di Raimondo Nonnato: un santo « storico ». Ma si mette in un'ottica che solo agli artisti è concessa, facendone un « ritratto » del tutto personale. Un po' come Michelangelo fa dei suoi santi, che gli mette addosso dei muscoli, delle energìe, e della vitalità forse poco « storici » ma indubbiamente molto significativi. Perché la santità dello spirito è un fatto robusto e coraggioso, checché ne sia del corpo che la contiene.
Per conseguenza Ramòn divento un « santo » senza aureola, erompente di forza: forza della fede, forza della speranza, forza dell'amore. Che la sua vita sia stata cristianamente fervida non è assolutamente messo in dubbio, ma questo aspetto si presuppone. I lineamenti che Santucci preferisce selezionare e marcare sono quelli dell'uomo, d'un « qualunque uomo », in rapporto con gli altri uomini che egli — magari un poco « rudemente » — ama come ama Dio. Il rischio che Santucci ci fa correre è quello di guardare il suo santo Ramòn come un « Superman » di pure dimensioni fisiche, mentre « Superman » è davvero ma in dimensioni — osserviamo bene — soprannaturali ed evangeliche: quelle per intenderci, che portano al sacrificio di sé (fino alla croce volontariamente abbracciata) per amore e salvezza degli altri.
Eletta quest'ottica e scelto il suo punto di vista, all'autore non interessa gran che offrirci una biografia storica del suo Ramòn. Egli scarta episodi edificanti, scarta luoghi e tempi storici, scarta quella grande quantità dì cose che di solito sono gelosamente appetite dagli scrittori di vite di Santi. Scarta persino il finale « cardinalizio » che, ammettiamolo, avrebbe potato offrire lo spunto a qualche scena teatralmente efficace... Sono tutte cose che riguardano la « vita del santo », mentre Santucci non intende affatto scrivere e rappresentare con rigore la santa vita di Ramòn...
Santucci scrive e propone sulla scena una parabola cristiana, tratta da spunti vissuti da un santo forse in maniera alquanto diversa. L'operazione è lecita, oltre che artisticamente, anche cristianamente. Basta leggere la « Leggenda Aurea » di Jacopo da Voragine. Il fatto « accaduto » lievita fuori dalla cronaca e dalla storia, trabocca verso la poesia e suscita stimoli interiori. Ossia « prende » non per via di rigorosità, come in un processo per canonizzazione, ma per via di simbolicità e quasi tramite una « metafisica poetica », che poi non è meno vera di quella vera: solo che si riveste di simbolo significativo e — diversamente dalla cronaca — trascina in una sorta di partecipazione particolare, in direzione per così dire « programmata ».
Liberazione. Questo appunto è il tema programmato da Luigi Santucci per il lettore e per lo spettatore del suo Ramòn. Eccoci dunque nel dramma attuale tratto da sfondo storico. Ammesso che Santucci non scrive vite di santi ma punta sulla poesia popolare per dialogare con l'uomo d'oggi, non ci troviamo affatto — malgrado ogni apparenza contraria — davanti ad un racconto fine a se stesso, che ci lascerebbe abbastanza indifferenti; siamo invece, indotti a riflettere sul valore cristiano e sulla vastità della liberazione.
La liberazione storica degli schiavi è ormai (Dio voglia) un « lontano » ricordo che qui diventa parabola. A leggere con un minimo di penetrazione il testo e la scena Ramòn il mercedario è simbologia: dito puntato contro ogni sorta di « barbareschi » che con novità di metodi ma
con medesima sostanza pretendono ancora oggi di intrappolare l'uomo nelle loro catene. I tiranni, i sopraffattori, i violenti, gli ingiusti... Da tutti costoro — a costo di calanutare solo contro di sé l'ingiustizia — Ramòn rivendica è contro tutte le schiavitù di ieri e di oggi, anche contro la liberazione-redenzione, ossia la libertà totale. Il dramma l'auto-schiavitù che talora l'uomo, « barbaresco » di se stesso, perpetra contro la dignità personale sua propria, quando s'incatena all'insania, all'odio, alla violenza, al suicidio morale...
Ma non si tratta solo di liberazione « contro » qualcuno o qualcosa. Si tratta di recupero di personalità, di ascesa e sublimazione, di assorbimento divino... Il finale « evangelico » del dramma dice molto a questo proposito: dice assai più che non direbbe la promozione a cardinale (storicamente avvenuta) di San Raimondo Nonnato... A Emmaus, oltre Emmaus, l'uomo è liberato nel divino, totalmente, perennemente... Se c'era bisogno di suggerire una lettura niente realistica e solamente simbolica del dramma, l'Autore lo ha fatto in questo suo finale perentorio, dove lo « schiavo » della storia si trasfigura — il che è proprio del messaggio cristiano — mediante una liberazione talmente piena da sommergersi — in terra come in cielo — nella stessa libertà assoluta. Una libertà che è sacrilegio violare.
Marco Bongioanni (Servizio Stampa)
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