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La recensione di Odoardo Bertani
 

La recensione

La più alta poesia in chiara pronuncia

Un'occasionalità goethianamente intesa; un dialogo filosofico non disgiunto da una raciniana lettura del cuore e dell'umano dovere; una meditazione della storia non come casualità ma come mistero; un sofferto sentire il mutamento come prova del valore personale; una comprensione dell'altro degli altri, cercando di cogliere dovunque i segni del tempo; una riflessione acuta nel potere e nella violenza; una persuasione che perennemente «saeculorum novus nascitur ordo», la spiegazione del quale sta nel dio nascosto; una concezione del Cristianesimo elemento agonistico ed eroico della vita; una esaltatone del martirio come misura della carità: questi i motivi di Ipazia e di Il messaggero, i due testi speculari di Mario Luzi, andati in scena a cura dell'Istituto del Dramma Popolare, e sui quali ci siamo ieri soffermati. E' teatro? Niente di più pericoloso dell'autogestione teatrale, dell'idea corporativa in cui accade che talvolta il teatro si sistemi, asrraendosi nella mortale ripetitività e nello sclerotico sussiego d'un arte definitasi per sempre. Il testo di Luzi è teatro, e della qualità assoluta, cioè poetico. E' pensiero e passione (anche carnale) allo stato puro, come si rivela anche nella forma così pacatamente incisiva, e che reca la drammaticità dei conflitti dove l'uomo gioca tutto se stesso. La libera versificazione, poi, raccoglie ampiamente una interpretazione del verso classico francese. Ogni parola è nitida e concreta, vigile di sé come i personaggi, presenti sempre a se stessi.
Orazio Costa Giovangigli s'è assunto il compito della messa in scena, ed ha operato con grande intelligenza, sicché è venuta fuori proprio la consistenza teatrale dell'opera, la sua possibilità di essere provocazione e messaggio. L'essenziale vicenda e i drammi delle coscienze si sono assestati in un equilibrio attivo, e la parola ha avuto conferita tutta la sua autorità. La pronuncia: non retorica, ma nemmeno naturalisticamente colorata, ci ha messo innanzi figure nella loro necessità, nel loro spessore spirituale, nell'autenticità del loro diverso porsi davanti al reale e a ciò che lo trascende. Un poco più mosso, e giustamente, il personaggio di Sinesio, prima seguace di Ipazia, poi Vescovo di Cirene, che è il portavoce dell'autore, ma in cui, soprattutto, il tema della prova individuale di fronte al mutamento generale si incarna sino all'ultima conseguenza. E conviene dire subito che Massimo De Francovich è stato di mirabile, affascinante capacità immedesimativa, e che il suo Sinesio è stato una realtà di parola e d'azione. Assai intensa febbrilmente e limpida Ipaziia è risultata Ilaria Occhini, che il regista ha voluto altresì sdoppiare nella voce, così da far vivere tutto nella sua coscienza il momento della acccttazione di un destino di sacrificio.
Gianrico Tedeschi è un ben composto Gregorio, Paola Bacci e Barbara Salvati portano assai bene la nota dell'amore terreno; Ettore Toscano, Sandro Rossi, Mico Cundari, Sergio Salvi danno un impeccabile contributo ad una rappresentazione increspata di essenziali movimenti e impreziosita dalla musiche di Sergio Prodigo eseguite da Nives Poli Rapp e da Lapo Bramante. Decorosi i costumi di Emilio Pucci; la scena è di Titus D. Vossberg. Un ascolto attento, un interesse partecipe del pubblico radunato nell'auditorium di Piazza Bonaparte. Diffusa la sensazione di avere assistito ad un evento, non che teatrale, civile; che la misura di Ipazia e di Il messaggero è quella della poesia, e che la sua zona residenziale è quella di Assassinio nella Cattedrale.

Odoardo Bertani, Avvenire, 27 Luglio 1979




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