Languida Salomé
E curioso che quasi tutti i giornali abbiano adoperato l'aggettivo «gelido» negli articoli su questa nuova Salomé, manco si aspettassero una Salomé postribolare alla Tinto Brass. A mio avviso, il segno peculiare dello spettacolo non è il «gelo» bensì il languore. Se Oscar Wilde vedeva la sua Salomé in chiave bizantina, Steven Berkoff, sfruttando un elemento parodico già presente nel testo, mette in azione un'altra decadenza, quella della società raffinata della belle epoque, che è poi l'epoca dell'autore, in un circuito languorosamente mondano dove Erode vuole il corpo della figliastra Salomé, Salomé vuole levarsi uno sfizio baciando le labbra rosse di San Giovanni, anche se decapitato, e gli altri completano la cerimonia rituale, mentre il Battista continua a parlare per conto suo del regno dei cieli.
Un critico ha detto che lo spettacolo è rimasto ibernato sin dal 1989 quando è stato presentato per la prima volta a Edimburgo. Vero è il contrario. Anche se la scenografia e la struttura interpretativa sono rimaste immutate, tutto è cambiato per le necessità del cast. A Edimburgo, Erode era un attore con il volto flaccido e androgino e il corpaccione di Oscar Wilde, e lo spettacolo era più coerente. A Spoleto la parte di Erode è assunta da Berkoff stesso con la stravaganza, la tracotanza e la iattanza di Carmelo Bene ai suoi begli anni. Ma la bizzarria e la prepotenza della sua recitazione alterano l'equilibrio dello spettacolo.
La prima parte, senza Erode, tutta al ralenti, come se la storia avesse luogo nel regno onirico dei nostri desideri, è magnifica: le distorsioni grottesche della voce mondana dei convitati, e quelle da bambinaccia di Salomé quando insulta una parte delle attrattive di San Giovanni (il corpo bianco, i capelli neri) per esaltarne un'altra (la bocca rossa, per esempio) sono perfettamente centrale. Poi entra in scena Berkoff, e ci offre un tour de force affascinante, ma esclusivo, che non ci permette di seguire il resto del cast. Si piazza al centro della scena e soverchia tutti gli altri. Perfino la Salomé di Zigi Ellison, dopo un ottimo inizio, viene dominata dalla sua esuberante personalità. Comunque, pur con riserve, questo rimane il più bello spettacolo che abbiamo visto in Italia quest'anno, grazie al Festival dei Due Mondi.
Ti-Jean è una graziosa favola caraibica, del tipo I tre porcellini o della fiaba toscana Giovannino senza paura, che appartiene alla preistoria del premio Nobel Derek Walcott (la prima rappresentazione a Trinidad è del 1958), con molli influssi della cultura europea sul ceppo culturale locale: alcune frasi del Bolom, il bambino non nato, sembrano venire addirittura dall'homunculus del Faust II di Johann Wolfgang Goethe. Ora tradotta con garbo da Annuska Palme Sanavio e pubblicata da Adelphi, è stata rappresentata come una moralité cattolica, con concessioni allo spirilo di sagrestia ma anche a quello dell'avanspettacolo, da Sylvano Bussotti. Nonostante la grazia del testo e la lama del regista, il risultato è disastroso.
Importando pari pari musiche caraibiche, in karaoke, in un contesto italiano con una troupe di giovani volonterosi attori bianchi che interpretano i personaggi umani e animali, il risultato ricorda inevitabilmente la pubblicità di una scopa o di un detersivo per bagno alla televisione.
Non capisco cosa ci faceva un bravo attore di teatro come Remo Girone in questo pasticcio. Solo un regista come Jérome Savary avrebbe potuto salvare un progetto così insensato.
GUIDO ALMANSI, Panorama 1 agosto 1993
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