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La Repubblica - La recensione di Rodolfo Di Giammarco
 

Cercando la fede perduta
Metti una sera a teatro un teologo caduto in apostasia, un giornalista di palazzo che viene esautorato dalla sua loggia spiritual-corporativa, un letterato integralista e morboso, un monsignore ipocrita, un anacronistico e naif maestro di pensiero, un columnist gambizzatore dal suo riparo nell' ombra, un vagabondo inquietante, una ragazza che è l'ultimo faro della pietas. La scena è quella sociale ma anche metafisica della Parigi sul finire degli anni Venti.
L'autore risponde al nome di Georges Bernanos, intellettuale del Novecento proverbialmente sensibile ai temi del trascendentale e se finora Bernanos è di diritto negli annali della prosa per i Dialoghi delle Carmelitane, una sua sceneggiatura cinematografica del '47/48 realizzatasi poi meglio in palcoscenico (accolta proprio qui a San Miniato nel '52 su regia di Orazio Costa, e di recente riaffrontata da Luca Ronconi), ora è la volta di un adattamento de L'impostura che risale a vent'anni prima, al '27, secondo romanzo dello scrittore a sua volta culminante in un seguito che fu La joie. Spunto originario era quellodi ritrarre una perdita di fede, senza però emettere condanne. Nei senso che le imposture sono multiple incombenti, assimilabili. E il dramma di Bernanos, ha pure una forma dialettica che sulla carta legittimava la riduzione operata in Francia, pare con successo, da Pascal Bonitzer e Gerard Wajcman, sulla scorta di una regia a firma di Brigitte Jacques cui è stato chiesto l'allestimento anche della versione italiana (conflittuale, con qualche disinvoltura forse di troppo) di Luigi Lunari.
Senonché, prima di dar conto dello spettacolo, inviteremmo a riflettere su alcuni presupposti della XLIII Festa del Teatro a San Miniato: «repertorio contemporaneo» (basta che sia del '900? e anche non espressamente nato per la ribalta?), «autore significativo» (omologato, ma di parte?) «movente spiritualistico» (un'etica laica sarebbe davvero incompatibile?) e, dulcis in fundo, «realizzazione professionale» (che quest' anno, ahimé, è carente). L'innesto in fotocopia della regista parigina trascura di porsi in rapporto con la cultura e con gli attori di casa nostra, il lavoro indugia in eccessive schermaglie dimostrative, il cast è di per sé fuori sesto, per dirla con un eufemismo.
E, invece, la sostanza de L'impostura, come dimostra il quadro dei contendenti già citati, e in virtù anche di inauditi perturbamenti, poteva dar luogo a un forte banco di prova. E' un susseguirsi di confronti, più che di azioni: il protagonista in crisi, il reverendo Cénabre, sfoga inizialmente il suo disagio mortificando un giornalista suo penitente, Pernichon, confidando subito dopo il suo «strappo» dottrinale a un pedagogo, a un più maturo religioso di quasi sprovveduta indulgenza; il contenzioso si fa crudele e squallido (e significativo anche per un mondo d'oggi) quando le parti in causa sono il giornalista di prima e, a lui ostili, i componenti di un cenacolo conservatore e gazzettistico che lo giubila senza mezze misure, inducendolo a un suicidio dietro le quinte.
Si registra poi una feconda, simbolica confessione di Cénabre in presenza di un ragazzino e in un altro capitolo che direi d'appendice gli si fa sotto un clochard, un disturbato e disturbante buffone girovago che dovrebbe acuire lo sconcerto dell'umanità integrata. Finché non muore quel tale maestro e-ducatore, appena consolato dal prodigarsi di Chantal, l'unica anima scomplessata di questo consorzio sempre meno civile. Fatale è il suffragio che lo stesso Cénabre ancora raccoglie allusivamente in chiusura: Dio ha pur bisogno di impostori votati comunque alla causa.
Passi per Roberto Herlitzka che è un macerato e isterico Cénabre (non convintissimo), e passi per il «decano» reso da Antonio Pierfederici, come pure per il giornalista impersonato con ansia da Franco Castellano, ma né Mario Maranzana come «barbone» alla Zavattini, né il manipolo della piovra curial-salottiera (Fernando Caiati, Mario Ventura, Sergio Fiorentini, Piero Caretta), né la mite Augusta Gori sono caratteri da disfacimento morale. Semmai silhouettes, caricature. E a poco giova la scena di Emmanuel Peduzzi, con un cielo surrealisticamente schermato e con una maquette di edifici parigini sotto il proscenio. L'Italia di Diego Fabbri verrà dopo.

RODOLFO DI GIAMMARCO, La Repubblica 25 luglio 1989




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