Teatro non di devozione ma di interiore tortura
Giunto alla quarantunesima festa, l'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato, ormai illustre laboratorio teatrale, ha presentato quest'anno nella splendida cornice dì piazza del duomo, Il capanno degli attrezzi di Graham Greette, per la regia di Sandro Bolchi, il dramma dell'inquieto scrittore inglese («Un tormentato campione di casistica che, convertito al cattolicesimo, non per improvvisa illuminazione, come accadde a Claudel, ma per una faticata conquista della verità della Chiesa, nei suoi drammi si propone di far sentire la presenta di Dio, sempre, anche nelle situazioni che più ne sembrano lontane», scrisse E. P. sul Corriere della Sera 23.1.58) non costituisce per l'Italia una novità assoluta: fu infatti rappresentato nel 1958, prima a Ivrea poi a Milano al teatro del Convegno. Ma non fu un successo: forse il regista, Enzo Ferrieri, non tenne conto a sufficienza della complessità del testo che era stato appena messo in scena a Londra con l'interpretazione del grande attore sir John Gieguld, e a Broadway. Ed ecco adesso la riproposta o, se vogliamo, la rilettura - entro uno spazio teatrale che si è conquistato largo prestigio sia in Italia sia all'estero, non soltanto con gli exploits delle ultime due edizioni (Giobbe di Papa Wojtyla e Fiorenza di Thomas Mann), ma portando in scena, nell'arco di quarant'anni, opere di profonda densità suggestiva e di alta spiritualità di Eliot e Bemanos, Fabbri e Claudel, Gheon e Silone, Bolt e Pomilio, Luzi e Wiesel. Si è parlato di alta spiritualità e non a caso: l'esplorazione interiore, la cerca dell'Io nel turbinare delle contraddizioni personali e storiche, il costante richiamo a un Dio che sembra non rivelarsi e poi incendia le coscienze, costituiscono referenti costanti nella dimensione etico-artistica in cui è maturato, in anni nei quali la guerra era un'eredità visibile e palpabile, l'Istituto del Dramma Popolare. Con i suoi appuntamenti annuali, sempre stimolanti, tesi e problematizzati, addirittura fino alle soglie dell'ambiguità: ma comunque creativi per la capacità di coinvolgere il pubblico nella crisi-crescita della persona che chiede, che si interroga.
Ha dichiarato il presidente Silvano Vallini: «L'Istituto del Dramma Popolare rappresenta per l'Italia un'importante testimonianza di tipo spiritualista. E' l'annuale proposta di un umanesimo cristiano che ha sempre portato avanti con coerenza un suo originale messaggio fondato principalmente su di un buon teatro, grandi attori, novità a livello mondiale, proposte inedite e motivi destinati a provocare riflessioni e dibattito. Uno dei meriti dell'istituto sta nella rigorosa linea culturale e nel fatto di proporre, ogni anno, dei testi teatrali che rappresentino le più autorevoli testimonianze di una verità profonda, incarnata nella storia e nella cultura, che non può avere confini di razze o di religioni». E, a proposito della presunta impopolarità di certe proposte, Marco Bongioanni, che con grande competenza e sensibilità svolge il suo ruolo di direttore artistico, ha aggiunto: «Alla prova dei fatti non c'è stata incomprensione popolare, semmai è vero il contrario. Ho pieno rispetto per la concezione che ebbe Jacques Copeau di un théatre populaire, ma, forse, erano altri tempi. Oggi i media (giornali, cinema, televisione) hanno elevato il grado di informazione e di cultura popolare; non è più questione di linguaggi elementari, ma, semmai, di linguaggi e di messaggi trasparenti. Il pubblico di San Miniato ha colto benissimo, il senso del processo a Dio di Elia Wiesel (1983), come il senso del dolore redentivo di un Giobbe integrato nel Cristo proposto da Karol Wojtyla (1985), come ancora il valore dell'umanesimo, sia profano (personificato da Lorenzo dei Medici) e sia santo (personificato dal Savonarola) secondo il dramma di Thomas Mann. Questi lavori costituiscono altrettanti punti di successo popolare nei quarant'anni di rappresentazjoni sanminiatesi e si affiancano al successo che, a suo tempo, ebbero qui Eliot con Assassinio nella cattedrale e altri drammi. Né Eliot né Mann né Wiesel, e direi nemmeno Wojtyla, sembrano a prima vista popolari, ma lo sono diventati in scena, con i loro linguaggi e messaggi limpidi, suggestivi, suasivi e convincenti. Teatro non è il testo, ma la scena: lì si fa il teatro e la sua popolarità. Ma in che misura il pubblico ha risposto quest'anno alle sollecitazioni culturali e religiose del dramma? A noi è sembrato che abbia colto la intima anche se tortuosa religiosità del lavoro di Greene. Guardiamone la trama. Al centro c'è il capanno degli attrezzi nel giardino della casa dei Callifer. Lì dentro è accaduto in passato qualcosa di terribile, di sconvolgente: qualcosa che è presente come immagine nebulosa, ma atroce o come eco fievole, ma insistita nella mente di tutti, senza che però l'impressione dell'evento sia diventata cognizione e consapevolezza. In casa Callifer c'è un vecchio il capostipite che sta morendo. E' un ateo incallito e da un ateo è assistito nel grande passo. La consorte Mary ha chiamato al capezzale del morente il figlio John, perfino Sara, la moglie separata dell'altro figlio James, ma non questo.
Perché è stato escluso? E nessuno ha avvertito William, fratello del morente, che è sacerdote: un prete che annega nel whisky la disperazione di aver perduto la fede in Dio, continuando comunque la sua missione per una sorta di obbligo etico, James, il reprobo?, arriva, avvisato da una nipote: giunge per dovere filiale, ma anche per ricordare, per capire. Che cosa è avvenuto nel capanno degli attrezzi? Che cosa è accaduto tanti e tanti anni prima, a sconvolgere, a travolgere delle esistenze? James chiede: a uno psicanalista, alla madre, mentre la nipote indaga. E il passato viene a delinearsi, tra oscure fascinazioni a mezza strada tra il sortilegio e il miracolo. Nel capanno degli attrezzi, James, quattordicenne, straziato nell'intimo tra la professione di ateismo del padre e le parole di fede dello zio William, aveva tentato di suicidarsi, impiccandosi. Aveva tentato o sul lievissimo crinale che separa la vita dalla morte era stato salvato da un miracoloso, sublime sacrificio? Forse quello dello zio William che, giunto trafelato al capanno, si era inginocchiato a pregare, offrendo a Dio la fede in cambio della salvezze del nipote? Ecco il segreto dei Callifer: l'allontanamento di James e di William, intricati in un fatto inquietante, perturbante, da rimuovere: accettarne la logica significherebbe accettare Dio. E accettare non un Dio pacificatore, ma drammaticamente operante, nella storia dei singoli: un Dio che chiede testimoni, martiri, il cui rigore arrivi all' annullamento di sé per gli altri. Preferiamo non dir nulla circa la fine del dramma: le conclusioni sono, diciamo, pacificanti e rassicuranti, e sembrano tutto voler conciliare: ma quello che più colpisce un pubblico dove i cristiani militanti siedono accanto ad agnostici, a scettici, ad atei, è l'ansia, il travaglio di chi svuota l'anima e apparentemente la butta via, per poi tornare a riempirla di luce... di difficile luce - con la grazia che attendeva - nascosta - nell'angolo.
Dunque, questa di Greene, una proposta da discutere con intelligenza: teatro aperto e oratorio - più di interiore tortura, che di devozione - ha fatto affidamento sull'ottima regia di Sandro Bolchi e sull'interpretazione, ricca di sfumature e di partecipata adesione al testo, di Carlo Simoni, Margherita Guzzinati, Joyce Leoni, Mario Maranzana, Regina Bianchi e di tutti gli altri che «in un felice stato di tensione» come ha scritto Vittorio Brunelli, hanno vissuto una storia, in fondo senza fine, come quella dell'umana coscienza investigante.
MARIO BERNARDI GUARDI, Messaggero Veneto 21 luglio 1987
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