L'ossessione di Satana è passione di Dio
Per la diciannovesima «Festa del Teatro» l'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato ha scelto un testo arduo ed impegnativo: la riduzione che Diego Fabbri e Claudio Novelli hanno liberamente compiuto di Sotto il sole di Satana di Bernanos, cioè del romanzo più tempestoso, irto ed incandescente del grande scrittore cattolico francese morto nel 1948. La prova, nel complesso, è stata superata brillantemente tanto sul versante del testo quanto su quello della regia e dell'interpretazione. Fabbri e Novelli sapevano bene di dover tradurre in drammaticità esteriore quello che nel primo e più discusso romanzo di Bernanos è soprattutto drammaticità interiore.
Come dire che occorreva — trattandosi di uno spettacolo con tutte le consuete esigenze ad esso connaturate — rendere penetrabile e leggibile da parte del pubblico questo testo arduo. Puntando sui fatti e dando ad essi un'evidenza rapida, Fabbri e Novelli hanno inteso restituire al personaggio principale del dramma, per mezzo di un ritmo serrato ed insieme assorto quasi estatico, ciò che inevitabilmente gli toglievano in intensità e monologo e integrazione da parte dei personaggi minori. Il regista Josè Quaglio ha giocato la storia intima dell'abate Donissan in tagli nudi e vivi di luci e di sequenze ridotte esteriormente al puro necessario, e tuttavia quasi sempre persuasive.
D'altronde, sia per Fabbri e Novelli che per Quaglio — ed ovviamente anche per gli interpreti — le difficoltà erano pressoché immense. Sotto il sole di Satana vide la luce a Parigi nel 1925. Era l'opera di un esordiente di 40 anni che fino a quel momento aveva vissuto (e avrebbe continuato anche dopo) a fare l'agente di assicurazioni. Era una vera e propria sfida tanto all'agnosticismo di borghesi e letterati che al filisteismo di molti ambienti cattolici. Bernanos, come Donissan, come, più tardi, il suo «curato di campagna», come le Carmelitane di Compiégne (la cui storia di martirio fu rappresentata a San Miniato nel 1952 con la regia di Orazio Costa) ha l'ossessione di Satana solo perché ha la passione di Dio, del mistero, del soprannaturale, dell'invisibile; e la rappresentazione che ne da è sempre condotta nello scontro fra Dio e Satana, fra la grazia e la debolezza umana. Tutta
l'opera di Bernanos è una grande, ininterrotta «emorragia d'anima»: la sua e quella dei suoi personaggi nello stesso tempo. E il sacerdote, soprattutto il sacerdote, è il campo di battaglia su cui, sempre da capo, si verifica lo scontro di masse idrofobe. I suoi preti restano sempre al limite, «perdono la propria anima per salvarla», perdono ogni saggezza ed ogni prudenza umana in forza del dolore e dell'amore.
Donissan, il protagonista di Sotto il sole di Satana, è il più grezzo, indifeso, vulnerabile di questi sacerdoti. Eppure si getta a corpo morto nella lotta contro l'opera di Satana nel mondo. Vince con la morte di Mouchette, che riesce a portare di peso a morire sul sagrato della chiesa; perde nel tentativo di resuscitare un bimbo morto; e alla fine comprende che la sua vocazione consiste soprattutto nel leggere nelle anime, patire, e scoprire così, gomito a gomito con i più tormentati degli uomini, una gioia che ad ogni altro è sconosciuta. Ha un incontro con Satana in persona, che gli appare in sembianze ora di intendente governativo, ora di sensale, ora di scrittore famoso (un «ritratto» amarissimo ai Anatole France; mentre Donissan stesso è, in qualche modo, il ritratto letterario e tragico del Curato d'Ars).
Invece di trovare la morte sotto lo scudiscio ed il cilicio con i quali, all'inizio, si dissangua, il povero rozzo prete la troverà al posto di fatica, nel ministero estenuante del confessionale, a contatto con le anime che gli si aprono come libri vivi. Lì aspetterà il «colpo» mortale dell'amore, come ha retto al colpo tentatore di Satana.
Da un magma tanto tumultuoso e ardente, Fabbri e Novelli hanno tratto il migliore risultato che, in una scelta del genere, potesse essere realizzato. Hanno giocato la storia di Donissan come un'inchiesta, l'inchiesta che l'autorità ecclesiastica conduce sull'operato del prete tanto discusso. Mons. Demange, impersonato da un vibrante e austero Fosco Giachetti, cerca insieme a Mons. Menu-Segrais, parroco di Donissan, d'individuare i torti, gli eccessi, l'errore del prete santo; alla fine è costretto a concludere che gli può offrire, più ancora che la propria comprensione, la propria preghiera.
I diritti dello spettacolo sono stati ampiamente rispettati. Era senza dubbio più che arduo portare Satana di peso
in scena, anche se in panni di ambigua contemporaneità; ma Vittorio Sanipoli, sanguigno, allusivo, furibondo, glaciale, è riuscito a dare straordinaria credibilità al momento certo più difficile del dramma.
Gli autori-riduttori hanno concesso lo spazio giusto anche a Mouchette, la «Santa Brigida del nulla» che Donissan strappa alla perdizione quando già si è recisa la gola con un rasoio. Sono riusciti, anche in virtù di straordinarie risorse di mestiere (poiché le idee, il sangue e il fuoco sono dovuti tutti a Bernanos) a porre su Mouchette, ora cinica, ora folle, ora tenera, ora provocatrice, omicida, suicida, infanticida, le risorse più scoperte dal lato più vivo e spettacolare, tuttavia restando sempre sul terreno di estremo gusto e di rigorosa misura. Adriana Asti ha reso colmo e avvincente, rilevato a tutto tondo, un personaggio che nello stesso Bernanos tende prevalentemente allo schema narrativo più prestabilito ed astratto che pienamente concreto. Accanto a un Sanipoli satanico e irridente, la Asti è stata a sua volta satanica nella maniera più sottile, spontanea, penetrante.
Giulio Bosetti è stato un Donissan smarrito, caparbio, indifeso, anche se la scelta della regia ha fatto di lui più un ideale interprete del Diario di un curato di campagna che di Sotto il sole di Satana. È stata soprattutto la staticità voluta e persistente della sua maschera a rarlo immaginare in questo altro dramma bernanosiano, forse più profondo, ma meno ardente e tumultuoso. L'interpretazione di Bosetti ci è sembrata in questo senso, più esatta ed intensa nei momenti di abbandono, di dolore nascosto e di preghiera che nei momenti più esteriormente drammatici e nei dialoghi con gli altri protagonisti.
Ottimo sotto ogni punto di vista Augusto Mastrantoni nel personaggio di Menu-Segrais, soprattutto per l'intensità della recitazione affidata quasi esclusivamente a moduli essenziali di voci, e a un gestire autenticamente ecclesiastico, ma pieno di controllata tenerezza. Da ricordare anche Gigliola Girola, Attilio Cucari nella parte del marchese di Cadignan, l'amante vittima di Mouchette, e Diego Michelotti nella parte del dottor Gallet, simbolo dall'arrivismo politico e della ipocrisia borghese; infine Silvana De Santis e Claudio Dani.
Lo spettacolo è risultato intenso e tuttavia fluido, «tenuto» genialmente dal filo conduttore dell'inchiesta ecclesiastica. Il mondo religioso e satanico presentato dal romanzo è trapassato nella pièce senza sussulti e fratture. Quaglio è riuscito a conservare assai bene la pienezza di quel mondo e di quei personaggi in conflitto, concedendo alle esigenze esterne tutto quanto era legittimamente possibile.
Anche nelle scene più movimentate — ad eccezione di quelle della tentata resurrezione del bambino morto, afflitta, ci sembra, da un eccessivo essenzialismo — Dio e Satana risultavano, per lo spettatore più attento, i veri individui protagonisti.
Severe le scene di Sandella e le musiche di Chiaramello. Lo spettacolo è andato in scena in piazza San Francesco, davanti ad un pubblico folto, attento, commosso.
Col prossimo anno la fatica dell'Istituto del Dramma Popolare e di don Giancarlo Ruggini, che ne è l'animatore e il sorridente «martire», tocca i vent'anni. Si spera che soprattutto in questa occasione vengano offerti sia all'Istituto che al suo animatore non solo incoraggiamenti ed applausi più che meritati, ma anche gli aiuti concreti che un'iniziativa del genere merita ad ogni effetto, con sempre maggiori prove di intelligenza, di competenza e di entusiasmo.
Nazareno Fabbretti, La Gazzetta del Popolo, Torino, 25 Giugno 1965
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