L'urto tragico di due ataviche pazzie
Oggi è San Genesio, protettore degli uomini di teatro, e qui a San Miniato, che per patrono ha pure questo Santo oltre all'altro che gli da il nome, a questa data l'Istituto del Dramma Popolare dal '47 allestisce un grande spettacolo all'aperto: il prim'anno La maschera e la grazia di Henri Ghéon, l'anno scorso l'Assassinio nella Cattedrale di Eliot, quest'anno la novissima tragedia di Bruno Cicognani: Yo, el Rey.
È il delizioso San Miniato delle «risorse» carducciane, che si compone e stende sul crinale fra due avvallamenti floridi e vi gioca a farsi vedere e nascondersi. V'era la torre sveva di Federico II, che guardava l'Arno che scende al mare, e la vedevano alta su tutto fra il Valdamo basso e il fluirvi dell'Elsa. Entro quelle mura la leggenda imaginava il suicidio di Pier delle Vigne, prigioniero dell'imperatore, che lo aveva già fatto abbacinare. Ora la torre non c'è più, perché in quest'ultima guerra i tedeschi con insuperabile idiozia l'hanno fatta saltare. Rimane intatto il sapore antico della città, nobiliare ed agreste, borghigiano e monastico, e i godevoli silenzi e la scesa, verso la valle, delle viuzze di sotto il breve arco di ponticelli armoniosi. In questa serenità campagnola ed aerea oggi è riapparso, per l'arte di Bruno Cicognani, il drammatico contrasto tra Filippo II di Spagna e il figlio di lui, Don Carlos.
Tutti ne conoscono gli illustri precedenti scenici. Per non dire che dei più celebri, quello dello Schiller e quello dell'Alfieri. Più turgido e romanticamente complesso il tedesco, secco e risolutamente impostato sull'antagonismo fra la tirannide e la libertà l'italiano. La ricchezza drammatica del soggetto in sé non era stata approfondita né da questo né da quello e l'uno aveva sentito la convenienza di aggiungervi elementi fantastici che ne alimentassero la trama, l'altro ne aveva superato la particolare umanità, riducendola ad un più universale opporsi di principi elementari. Per Bruno Cicognani invece la tragedia delle due persone è nella stessa loro complessa ed intima natura, la quale le pone di fronte similari e antagonistiche, fatalmente cozzanti, né tutto il bene è nell'una né tutto il male è nell'altra, anzi dalla varia dosatura delle loro virtù e delle loro tare, che a ben guardarle non sono dissimili, deriva il diverso carattere che necessita quel loro perenne e inesorabile contrastarsi. Alle radici della loro realtà umana è la comune eredità morbosa di Giovanna la Pazza, filtrata attraverso gli eccessi di Carlo V.
Quel che in Don Carlos è follia disordinata di impeti, di violenze effimere, di odio tenace ed imbelle, di grida e di abbattimenti, di furori e di prostrazioni, è in Filippo II mania di regola e di disciplina, esaltazione regale e religiosa, senso esasperato delle sue responsabilità di origine divina, vicenda di lussurie insaziabili e di contrizioni angosciate, crudeltà e superstizione. La tragedia è in loro e li fascia nel tempo stesso e li determina. Essi ne sono gli attori e le vittime. Come tutti i maniaci Don Carlos si crea le giustificazioni delle sue estrosità contro il padre, al di là del vero e del giusto e si urla ragioni, di cui non può interamente persuadersi. Filippo II, più forte e più ipocrita, si giustifica l'insofferenza, ch'egli ha, delle stravaganze del figlio con la necessità di mantenere illesa la legge insita nella regalità ed integra l'intransigenza chiesastica e, nel farsi giudice e carnefice del figlio, par che goda del suo soffrirne. Gli eccessi dell'uno e dell'altro si mitigano per Don Carlos nella nobiltà del dolore, per Filippo nella nobiltà del dovere. Ma essi nella loro vera essenza si odiano accanitamente, perché ciascuno dei due odia nell'altro la pazzia inversa della propria pazzia e le brevi tregue non sono che finzioni imposte da un costume subito e male accetto.
È facile ora intendere l'alta nobiltà e la dolente umanità della tragedia del Cicognani, che l'ha divisa in due parti: la prima composta di tre episodi, la seconda di cinque. Divisione per comodità di rappresentazione, perché di fatto gli otto episodi si legano insieme inseguendosi ed acuendo progressivamente il pathos tragico. Il divenire dell' azione dalle premesse del primo episodio al concludersi della catastrofe nell'ultimo, non è che l'inevitabile sviluppo, per tappe successive, del tragico dissidio innato nelle due persone. Il disordine dei costumi, la vorace ingordigia, la crudeltà improvvisa e incontrollata si fondono in Don Carlos, fin dalle prime scene, con le sue aspirazioni alla bontà, alla serenità, all'amore e cercano di trovarvi un'impossibile componimento.
Sopra tutto è in lui l'odio forsennato contro il padre il quale, di fronte a quel figlio corporalmente infelice e psichicamente contorto, potrebbe nella sua apparente superiorità di uomo ancor giovane, bello e robusto, permettersi il compatimento suggerito dall'affetto paterno, se non dominasse in lui quasi esclusivamente il pensiero fisso della regalità, che da lui dovrebbe trasmettersi in così indegno erede. Con grande finezza il Cicognani ha fatto che quel che di Filippo era delicatezza di sentimento e squisitezza d'animo non s'abbia a conoscere se non attraverso quel che ne dice la moglie Elisabetta, perché Filippo da sé non si confesserebbe mai tale. Quanto ai presunti amori della regina e del figliastro, su cui si composero tante favole, qui v'è soltanto un velo di rimpianto in lui, che prima aveva creduto gli fosse destinata come sposa quella che invece gli è diventata affettuosa matrigna. Né sogno alcuno di colpa né di sospetto o di gelosia. Don Carlos non pensa che alla cugina Anna d'Austria, che non ha mai veduto e farnetica di amare disperatamente.
Quando al pallido sentimento paterno si sostituisce interamente la ferrea devozione all'ufficio di re in un Filippo II, che contro gli eretici fiamminghi non obbedisce neppure alla parola misericordiosa di Roma e vuole soltanto la persecuzione e la strage, il destino di Don Carlos è definitivamente segnato e l'incatenamento del ribelle si compirà con subdola lentezza di anello in anello. Ogni disordinata azione dello sciagurato servirà da giustificazione o da pretesto, mentre egli si dibatte entro le convulsioni della sua impotente follia e vorrebbe persino essere assolto dal peccato di odiare il padre per potersi accostare alla Comunione, pur confessando che quell'odio permane in lui, assiduo e insuperabile. Da parte sua Filippo, invocato dal figlio morente, non si accosta a quel letto di agonia, perché la sua vista non riaccenda — dice — nell'uomo, che sta per presentarsi al giudizio supremo, quella livida colpa, ed egli non abbia a morire in peccato e in dannazione. Poi di fronte al cadavere sente tutto l'orrore di se stesso.
Sono dunque foimidabili complessi di umanità questi che Bruno Cicognani fa rivivere sulla scena, non con un atto di fantasia incontrollata, ma con tenace fedeltà alla materia storica lungamente interrogata e meditata. Suo ufficio di artista vero è questo sollevarla tutta nel clima cristallino della poesia e il crearvi intorno un giro di persone secondarie, di cui ciascuna ha un suo carattere nettamente delineato.
La rappresentazione si è svolta in piazza del Duomo. Il pubblico, folto e attento, ha accolto con numerosi applausi il termine delle parti e anche quelle dei vari quadri e particolarmente la scena conclusiva della tragedia. Molte chiamate agli interpreti, al regista e ai coadiutori; festeggiatissimo l'autore.
Il «Re» era Gianni Santuccio, don Carlos, Antonio Pierfederici, Elisabetta, Edda Albertini, l'inquisitore, Gualtiero Tumiati, il teologo anziano, Ignazio Bosic, il teologo giovane, Ottavio Fanfani. Altri interpreti sono stati il Feliciani, il Battistella; Alfredo Bianchini è stato «Gracioso» con spirito e ha cantato con garbata finezza le strofe di Vito Frazzi. Di mistico effetto i canti gregoriani preparati dal Maestro Stefano Diddi.
Ercole Rivalta, Il Secolo XIX, Genova, 28 Agosto 1949
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