UN SOFFIO DI SPIRITO NELLA PESANTE CALURA
Altro che stagione frivola e spensierata, per gli italiani in vacanza, l'estate 1990, nei programmi dei teatri all'aperto. È dalla fine di maggio che i palcoscenici sotto le stelle mandano messaggi impegnati, richiami ai problemi dello spirito, sollecitazioni d'ordine morale. Così, fedele ai suoi principi, l'Istituto del dramma popolare di San Miniato, che da oltre quarant'anni tenta di rivitalizzare un repertorio «sacro» modernamente inteso, grazie all'elegante traduzione di Enrico Groppali ha esumato da un esilio di ottantanni La grande strada maestra, ultimo e, per l'Italia, nuovo dramma di Strindberg.
Autore che, nella sua inquieta esistenza, nonostante certe repentine crisi mistiche e le meditazioni sui suoi tre matrimoni falliti, non diede mai autentici segni di ispirazione cristiana o di aspirazione alla fede, ma che, evidentemente, giunto alla vigilia, come si dice, del passo estremo, ha voluto ripercorrere i sentieri di una ricerca, l'accidentato itinerario delle memorie, gli affannosi trattori di una battaglia perduta. Come il biblico Ismaele figlio di Abramo e di Agar che, dopo aver combattuto contro Dio, ha finito col dichiararsi «vinto dalla sua infinita onnipotenza». Implorazione alla divina pietà, dunque, o ultima, ribelle bestemmia?
Opera tortuosa, come tortuoso e angosciante è il viaggio che il Cacciatore, suo protagonista, va compiendo, a ritroso nel tempo, lungo sette Stazioni, la metà di quelle della Via Crucis, attraverso gli egoismi, le brutture, l'idiozia, i delitti, le vergogne dell'umanità, «Parole che fa rima con la parola vanità...», gli dice il Viandante nel quale egli ritrova se stesso.
Al faticoso cammino cui è stato chiamato il pubblico hanno dato intenso, direi liturgico andamento drammatico la regia di Mario Morini, e grave, ieratica sostanza l'interpretazione di Massimo Foschi; con lui erano a condividere gli affanni di questa dolorosa discesa agli inferi Milena Vukotic destramente manifestatasi in diverse personificazioni; Carlo Simoni, Mico Cundari, Gianluca Farnese, Eliana Lupo, Antonio Cascio e, nei colori di due caratterizzazioni, Giancarlo Condè.
Apprezzabile il lavoro dello scenografo Stefano Pace; apprezzabile ma inutile in una piazza stupenda come questa del Duomo di San Miniato. E comprensibile, se non giustificabile, l'intemperanza di quello spettatore che, la sera della prima, all'«arrivederci» pronunciato in scena, secondo copione, dal Viandante, rispose «addio!», e se ne andò.
CARLO MARIA PENSA, Oggi, 15 agosto 1990
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