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La Testa del Profeta di Elio Andriuoli
 

LA TESTA DEL PROFETA

di Elena Bono

 

Note critiche - La testa del profeta (Ed. LE MANI, 2002) è uno dei primi lavori teatrali scritti da Elena Bono. Fu inizialmente pubblicato da Garzanti nel 1965, dopo l’esordio con la tragedia Ippolito (1954), di cui si ricorda la celebre interpretazione di Emma Gramatica, al Teatro Quirino di Roma, nel 1957.

A La testa del Profeta si interessò in quegli anni, per la realizzazione di un film, Pier Paolo Pasolini. Ma Elena Bono ritenne che, come cita Stas Gawronsky in un suo articolo pubblicato su Tutto Libri de La Stampa nel Luglio 2005, “non le sembrava il caso di celebrare queste nozze mistiche”. Le sembrava infatti che le loro strade, artistiche e spirituali, fossero fondamentalmente diverse e pensò fosse prudente evitare il rischio di possibili confusioni.

 

Scrive su La testa del Profeta Elio Andriuoli sul suo saggio critico del 1995 “Dieci drammaturghi e quattro poeti drammaturghi” di Elio Andriuoli – (Savona, Editrice Liguria, 1995) :

La testa del profeta è il dramma dell’intrigo politico, in cui i personaggi, anche se mossi dalle più diverse passioni, agiscono sempre lucidamente, sul filo di una dialettica serrata, che non dà luogo a cedimenti e non conosce abbandoni. Sin dall’inizio si è avvinti dall’eleganza con la quale si sviluppa il dialogo tra il ministro Cusa e il sacerdote Anna. L’ingresso di Erodiade, agitata da un’ira violenta per le grida della folla, che riecheggiano le accuse rivolte contro di lei dal Profeta Giovanni, determina un improvviso cambiamento di tono. Accanto alla regina è la giovane figlia Salomè, ancora acerba ma già molto avveduta se riesce, dominando la propria interna repulsione, ad assecondare i desideri della madre e a cercare di calmarla. Con la scena che segue, tra Erodiade e Anna, ai quali si aggiunge Mamerco Scauro, il legato romano,  tutti i personaggi  finiscono per accordarsi nell’intento di provocare la morte del Profeta; morte che diventa a questo punto inevitabile perché anche il ministro Cusa, che sino allora aveva protetto Giovanni, usandolo come un’arma contro la regina, finisce con l’abbandonarlo, non potendosi opporre alla volontà di Roma.

Il dialogo tra Cusa, avvertito da Salomè di quanto si andava tramando, ed Erode, è la parte centrale dell’opera ed è anche la parte più ricca di forza drammatica.

Il re è mosso da un sentimento ambivalente di repulsione a attrazione verso il Battista. Sente in lui il nemico che lo ha pubblicamente svergognato, proclamando ad alta voce le turpitudini delle quali si è macchiato; ma sente anche il fascino dell’uomo di sani principi e dalla morale purissima.

A questo punto gli eventi incalzano, in una successione che non offre possibilità di salvezza per il Profeta, la cui sorte è ormai segnata.

L’incontro tra il re e i convitati, fra i quali è il filosofo ateniese Clizia, il sopraggiungere di Erodiade, sempre più sarcastica e provocante, le parole del vecchio buffone Dima, che in segreto è un seguace del Battista, segnano soltanto una breve pausa prima del compiersi della tragedia, che verrà fatta precipitare inaspettatamente da Salomè, la giovinetta in apparenza fragile e indifesa, la quale, con la sua istintiva capacità di penetrazione dell’animo umano, diventa l’elemento decisivo nello sviluppo dell’opera.

Ciò che la muove è l’ansia di affermarsi, di sentirsi  importante e adulta e quindi di ottenere i beni e la considerazione che solo gli adulti posseggono. Per questo l’attraggono i gioielli di Erodiade e l’affetto che Daniele, il figlio di Cusa, le mostra; ed è per questo che si lascia facilmente convincere da Cusa, che le offre di danzare durante il banchetto, a chiedere al re, al termine della danza, la testa del Profeta. Saprà poi sfruttare il suo momento favorevole, accostandosi a Erode e salvandolo dalla crisi di abulia nella quale era caduto. L’ultima scena è tra Daniele e Dima.

Daniele, che ha ormai compreso di aver perduto Salomè, e che è stato per questo sul punto di compiere un gesto terribile, uccidendo la fanciulla e il tetrarca, rappresenta lo smarrimento e la crisi di tutti coloro che avevano creduto nel Profeta e nella sua capacità di rinnovare il mondo, confondendo gli empi e portando così sulla terra il regno di Dio.

Grande è la capacità che la Bono, qui come altrove, dimostra di saper far rivivere un’epoca; di darci una pittura di quello che fu un momento della storia umana, con tutto ciò che di bello e di turpe esso racchiuse. E questo in virtù della sua non comune cultura che le permette di ricostruire ambienti e situazioni anche di un lontano passato, circondandoli, al di là della imprescindibile trasfigurazione fantastica, di un’aura quanto mai concreta e reale.

I personaggi che ella ci presente pensano e agiscono come uomini e donne del tempo e del mondo in cui vissero, anche se portano in se stessi le passioni di sempre; ed il loro tempo ed il loro mondo è pure presente negli usi e nei costumi, nelle suppellettili, nei nomi dei luoghi e delle figure minori, nell’attento studio dei fatti, considerati nel loro divenire, nel richiamo a dottrine e a fedi, a lotte e a superstizioni.

 




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