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La recensione di Rodolfo Di Gianmarco
 

Insieme al Magnifico muore il Rinascimento
Ammirevole e insinuante spettacolo, quello che Aldo Trionfo ha saputo concepire da Fiorenza, l'unico testo teatrale attribuibile a Thomas Mann, dramma originariamente in tre atti pubblicato nel 1905 allestito rare volte in platee di lingua  tedesca.
Lo spettacolo di adesso, ohe corona la quarantesima Festa del Teatro di San Miniato, e che tra l'altro vi costituisce l'esordio nella manifestazione di un'opera mitteleuropea, risulta abbastanza logicamente riadattato dal regista Trionfo, e da Marco Bongioanni, e fonda il proprio apice su un episodio realmente avvenuto nel 1492, l'incontro tra il morente Lorenzo il Magnifico e frate Girolamo Savonarola, suo ideale e ideologico nemico, convocato per impartirgli i  sacramenti.
Mann, questo è chiaro, ebbe tutta l'intenzione di ritrarvi un comune tramonto del Rinascimento, e non solo lo spegnersi di un irripetibile Medici, tant'è che Savonarola sopravviverà non più di sei anni per essere poi ridotto al silenzio e al rogo. Il duello, comunque, fra i due Umanesimi a confronto, quello mistico e intollerante di Girolamo, e quello profano e sensuale di Lorenzo, quell'antitesi che suscitò storicamente partigianerie anche molto popolari, qui fa suo l'espediente di promuovere un po' più a ruolo di co-protagonista uno dei due altrimenti solo piuttosto evocato, quel Savonarola che adesso compare e scompare ai bordi laterali dell'azione, ancorato ad altrettanti pulpiti da cui a tratti declama brani furenti, aspri, ragginosi delle sue omelie, mentre il discorso teatrale di Mann procede nella residenza estiva medicea di Careggi, dove appunto Lorenzo langue, e intorno a lui ruota la corte.
Bellissimo colpo d'occhio su un interno arcadio, una specie di zattera dorata che porta alla deriva il genio illuminato, e che è sormontata solo da una sofà-catafalco. Ad esservi contesa, in senso culturale e teocratico, è Firenze nelle vesti femminili, nel carisma cortigiano di Fiore, mito cittadino che l'autore tradusse in personaggio donna, e ohe vediamo aleggiare come una Primavera del Botticelli, enigmatica, appetente.
Ma i pilastri dialettici del dramma sono il monaco e il principe, rispettivamente Virginio Gazzolo e Arnoldo Foà, i quali vi esprimono un apocalittico, calmo o prosternato gioco. Una straordinaria prova di interprete demolitore e in deliquio per Gazzolo che è un tribuno in tunica e cappuccio, e una decana, prodiga, sarcasticamente imperiosa e già coscientemente decadente anatomia del potere incarnata da Foà. Stupendi entrambi, complementari. E certamente si sono giovati delle intrusioni predicatorie, dei tagli operati sui troppo dispersivi paragrafi che Mann dedicava al salotto degli artisti, anche se notiamo sfoltimenti « prudenti » qua e là, ad esempio circa l'imbarazzo della  Chiesa  per  gli  ordini  mendicanti.  Ma  è  il meno.
Di forte e quasi torbido impatto è l'avvio con Giovanni, figlio di Lorenzo (un irreprensibile Marco Maltauro, finalmente anche un po' cinico), che calza la divisa rossa di cardinale diciottenne e ride sempre di un riso impenitente, falso e ingenuo. Mentre da un lato Girolamo alterna i suoi moniti lanciati verosimilmente nel duomo di Firenze, la ciurma poetesca e artigiana intesse subito pettegolezzi, e fa clamore l'ingiuria che il frate ha appena pronunciato in chiesa contro Fiore, dandole della « druda », della « Babilonia », perché tutti sanno che  giace  con  Lorenzo.
Lei,  invaghente,  e  artificiosa bellezza,  transita  quasi incorporea sulla scena (una Sabrina Capucci di impudica innocenza), e ignora l'offesa in quanto piuttosto turbata dal fascino del Girolamo in estasi, sussultante. Questa sua nuova passione, anzi, è l'arma di difesa contro i corteggiamenti già viroloidi di Piero, l'altro figlio di Lorenzo (un « ardente » Paolo Musio). Dopo un'ironica conversazione tra padre ed eredi, quel che più conta, e che costituisce il culmine più spettacolare, è il venire a contatto dei due rivali.
Alta scuola. Foà, incanutito e inesausto, manovra quasi in punta di sofismi con Gazzolo che entra a sua volta in una trance nevrotica e lo contrasta con una eccitazione che pare scolpita da Dreyer. Poi Lorenzo è stroncato, e a Savonarola il regista assistito da Lorenzo Salveti, fa presagire il Miserere prima del rogo. Nel clima culturale sono tra gli altri Piero Caretto (il Poliziano), ed Edoardo Siravo (Pico della Mirandola). Molti turbamenti musicali sono ben indotti da Paolo Terni. Aristocraticamente puri sono la scena di Giorgio Panni e i costumi di Aldo Buti.
Rodolfo di Gianmarco La Repubblica, Roma, 12 Luglio 1986




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