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La Stampa - La recensione di Masolino D'Amico
 

Riccardo II al Teatro Romano di Verona fino al 27 mostra i problemi con cui si confronta chi vuole allestire Shakespeare oggi e in una lingua diversa dall'originale, nonché le soluzioni di un regista intelligente e pragmatico. La prima difficoltà è di creare un solo ambiente compatto, disponibile a moltiplicarsi senza complicati cambiamenti di scena; Gabriele Lavia l'ha affrontata ricordandosi del recente film di Malle Vania sulla 42a Strada, vale a dire collocando dentro un vecchio teatro decaduto, anzi, addirittura bombardato (ispirata scenografia di Carmelo Giammello), una troupe di comici che all'inizio sembrano solo studiare il noto dramma storico, ma che poi vanno avanti come treni fino alla fine.
Questi comici sono per la verità tutti vestiti (da Andrea Viotti) non per una prova, ma in corretto grigio da businessmen, con cappotti, e solo il re si distingue con una lunga sciarpa rossa: anche qui siamo sul collaudato, i dignitari shakespeariani come funzionari ministeriali hanno ormai una onorata tradizione. La seconda difficoltà è di conciliare il ritmo e la presa della storia con la verbosità barocca, particolarmente di questo testo molto retorico: e Lavia ha optato
per tagliare molto, così da comprimere il tutto in 150'; (intervallo compreso), ma in compenso per porgere quello che resta in una versione di Alessandro Serpieri che si cimenta con le acrobazie sintattiche e le arditezze poetiche dell'originale, spronata dalle inquietanti percussioni di Manuel Sessarego, tambureggiante da una postazione laterale e elevata - l'unica altra musica è una lancinante nota di armonica quando il re diventa vittima.
Certo, i tagli tolgono spessore ai personaggi. Mancando nella parte accenni alle sregolatezze del re (che anzi in questa versione appare un marito affettuoso), il successivo, eloquente crogiolarsi nell'autocommiserazione di costui ha bisogno di tutte le suadenti risorse di Lavia interprete per mantenere l'ambiguità. Dell'usurpatore Bolingbroke, il futuro tormentato Enrico IV, padre del trionfatore di Agincourt, Luca Lazzareschi non ha modo di fare più di un serpentello politico. Inoltre è sparito   Giovanni di Gaunt morente col suo inno all'isola scettrata; e il pezzo col giardiniere che paragona il regno alle sue coltivazioni, affidato a dei clown, sembra rimasto solo in omaggio alla dolente regina, che è una energica Valentina Sperlì. Quello che abbiamo tuttavia fila e piace. Intanto a San Miniato fino al 24 si replica Il re pescatore, unico lavoro teatrale di Julien Gracq. E' una rivisitazione dell'usurata leggenda medievale di Parsifal, limitata all'episodio in cui il purissimo cavaliere riesce a farsi dire che il Graal si trova nel castello del ferito re pescatore Amfortas. Scrivendo nell'immediato dopoguerra, Gracq tentò di recuperare l'atmosfera semplice e fiabesca che Wagner aveva caricato di tanti simboli, e la regia di Krzysztof Zanussi spostandosi fra luoghi deputati - un castello, un lungofiume - e facendo arrivare a cavallo l'imberbe Perceval di Vincenzo Bocciarelli valorizza questo aspetto. Ma il fragile testo non prende come racconto, né il suo misticismo riesce a sembrarci altro che astruso. Non che i 100' dell'azione siano spiacevoli, o che abbiamo da ridire con Giulio Brogi e Riccardo Garrone, rispettivamente re e eremita. Ma davvero l'Istituto del Dramma Popolare non poteva trovare di meglio?
MASOLINO D'AMICO, La Stampa 21 luglio 1996




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