La recensione
Il tempo dello spirito e quello della storia
II benemerito Istituto del Dramma Popolare che, nella sua sede di San Miniato, dà vita ogni anno a rappresentazioni di alto livello artistico, in questi giorni si è eccezionalmente trasferito a Pisa, dove lo spettacolo si inquadra nelle manifestazioni indette per l'ottavo centenario della morte di San Ranieri, patrono della Città. Sui resti del Politeama, distrutto dagli eventi bellici, "La Guerra dei figli della luce", dramma di lotte e di distruzioni, ha trovato una suggestiva inquadratura, resa drammatica dalle rovine tuttora polverose, romanticamente consolata da una luna chiarissima che s'avvia alla pienezza.
I due tempi di Moshe Shamir — un israeliano che ha un posto di assoluto rilievo nell'impegno culturale e civile del suo popolo — si valgono di una vicenda lontanissima per proporci una problematica ed un clima interiore di un'intensa modernità. All'inizio del primo secolo avanti Cristo la Palestina è insanguinata da feroci lotte interne. Il regime vessatorio del re Jannai accende una rivolta di ebrei che, guidati da Jossi, non esitano ad allearsi agli idolatri, pur di abbattere il tiranno. Fra la tracotanza del re e la prevaricazione dei ribelli, il Gran Rabbino Simeone Ben Shetach cerca di mantenersi al di sopra della mischia e di far opera di conciliazione evitando l'impegno di una precisa scelta. Ma è proprio questa sua rigorosa equidistanza dalla tirannide del re, condannata dalla coscienza, e dalle alleanze dei ribelli condannate dalla legge d'Israele, che, alla fine, attira involontariamente i rivoltosi in un tranello teso dal tiranno e ne provoca la strage.
Ma la vicenda non è che la base narrativa e drammatica — pur tesa e intensa — su cui si innestano altri drammi non più politici ma morali e religiosi che addirittura sfiorano ed alludono a problemi teologici di ben più vaste proporzioni e che possono ben essere affrancati da quel contesto contingente e poco meno che occasionale. Diremmo anzi che questo affrancamento è necessario per evitar di valutare la problematica politica propria del contesto storico, psicologico, teologico e legale del mondo ebraico di quel tempo alla stregua delle concezioni e delle prassi moderne, aperte a un più elastico gioco di alleanze, a un dialogo tra le diverse confessioni di fede, portati d'altre maturazioni e di altri climi psicologici e religiosi e che non possono essere anticipati senza abuso al tempo e al mondo di Simeone Ben Shetach. D'altra parte il testo non solo si riferisce ad un determinato clima storico ma vagamente allude alla storicità (e quindi al possibile superamento) di una tale chiusura del politico entro il superiore contesto religioso.
Premesse, tutte queste, quanto mai ovvie e scontate e che pur forse vanno fatte per impedire all'uditore sprovveduto di restare incagliato al quadro esterno, che, per noi oggi, non esiste in quelle forme politiche ma esiste invece sul piano morale e religioso sul quale si proietta ed accenna a risolversi l'interrogativo di fondo. Il problema, oggi per noi, non è più di decidere se il popolo ebraico poteva o non poteva allearsi con gli idolatri per combattere Janneo (problema religioso e legale del momento); il problema vero è se e fino a che punto si possa accettare una certa commistione col mondo, una certa collaborazione con le stesse forze del male sia pure nella illusione di raggiungere il bene. Si tratta di vedere come operi la redenzione: se per esclusione rigorosa o per magnanimo ricatto. Ed è in questo che il dramma di Shamir, pure partendo da presupposti ebraici e da occasioni quanto mai remote, è eterno e vicinissimo e si apre a sviluppi che non esiteremmo a definire cristiani.
Il Gran Rabbino d'Israele ha condotto il popolo alla rovina per la sua fedeltà formale alla legge, il suo pacifismo, il suo voler essere equidistante, al di sopra di tutti senza discendere a dividere una responsabilità che è invece comune. «Io non avevo che una sola cosa da dire: — non sono con voi — Sempre — non sono con voi» egli confessa. «Ho voluto percorrere la via di mezzo, su cui non alligna il fuoco né la neve. Ma chiunque voglia percorrere la via di mezzo finirà col ritornare alla via del male, chiunque cerchi di impedire il sacrificio finirà col sacrificare i suoi fratelli sull'altare degli assassini; chiunque cerchi di preservare la purezza delle sue mani finirà con l'imbrattarle di sangue... Esser nemico di Jannai e nello stesso tempo essere anche nemico dei suoi avversari: ecco due giustizie. Odiare il male ma odiare anche coloro che vengono a distruggerne il potere; ecco due giustizie. Quant'è bella e gradevole questa purezza delle mani: conta più, per chi ne è dotato, dell'ordine del mondo... gli importa più che il posto d'Israele». Di fronte a questa purezza equidistante imparziale, che ha il calcolato rigore di un'equazione geometrica e la segreta compiacenza di un estetismo dello spirito, si impone invece la necessità di scegliere, di prendere partito, anche col rischio di errare, di mescolarsi, anche con la possibilità di contaminarsi parzialmente. L'astratto amore della giustizia deve discendere nella concretezza, e nella contingenza, scegliere coraggiosamente il proprio posto in terra, anche se questo impegno temporale possa significare una certa esteriore commistione, debba talvolta configurarsi in una parziale partecipazione, poiché ogni traduzione di valori assoluti comporta un certo discernimento nella contingenza; è abbassamento necessario per portare poi il reale al livello dell'ideale. Qualora non si accetti questa legge la neutralità può diventare colpevole e la purezza impura: una viziosa compiacenza di noi stessi e della nostra santità: una «purezza» che si identifica con l'orgoglio, una «purezza» da porsi tra virgolette perché, sotto denominazione di virtù e in piena correttezza formale, è in verità l'orgoglio del fariseo che, davanti all'altare, fa il conto dei suoi meriti. Una «purezza» che è un rifiutare la situazione umana e cristiana che è situazione incarnata e compromessa nel tempo.
Il dramma del protagonista — contrasto altamente ideologico attorno al quale si dispongono altri contrasti psicologici e affettivi — è il dramma di questa purezza che può farsi sterile ove non accetti di flettersi alle misure della vita; il dramma di questa fedeltà alle leggi di rigorosa incontaminazione degli ebrei: fedeltà doverosa, perché quelle leggi erano in vigore, eppure deleteria e che perciò fa intravedere la necessità di un superamento.
Uno degli aspetti che segna il trapasso dal vecchio al nuovo Patto è infatti un differente porsi dal fedele rispetto al mondo: non più fuori ma dentro, un diverso atteggiarsi di fronte al male: non solo difesa e fuga ma accostamento e conquista. Israele non si mescola agli altri popoli; la sua purezza è custodita, sì, da una legge interiore ma anche da una complessa trama di difese legali e di inibizioni precettistiche che verrano a cadere nel clima cristiano il cui concetto di purezza è meno sterilizzato e più incarnato, dinamico e tradotto nei limiti della contingenza e della storia. Come si vede non è tanto un problema psicologico — seppur si cali in tutta la drammaticità di una psicologia — quanto ontologico e teologico: un problema di incarnazione. Problema, cioè, di compatibilita tra il limite e l'eterno, l'idea e la vita che è di ogni tempo e luogo — e perciò anche ebraico — ma che sembra trovare la sua soluzione personale nel Cristo. Mentre il Dio di Israele non si rappresenta e non si nomina ancora, il Dio cristiano — cioè lo stesso Dio Incarnato — è, in Cristo, l'Emmanuele che ha posto tra di noi la sua dimora. E sarà il Cristo a parlare del lievito e del grano che non vanno tenuti lontano dalla pasta e dal loglio, ma mescolati ad essi, sarà il Cristo a pregare il Padre non perché tolga i suoi discepoli dal mondo ma perché, nel mondo, li liberi dal male; a mescolarsi Lui stesso, per primo, coi pubblicani e i peccatori.
Il problema del rapporto col mondo e con le forze del male si chiarifica col Cristo (facendosi magari drammatico perché più intrinseco e profondo, eppure più disteso). Ma il Gran Rabbino Ben Shetach è prima di Cristo e non può avere questa chiarificazione, se non come intuizione profetica in contrasto con la rigorosa chiusura della sua legge. Ed è questo il suo dramma. Il suo cuore presentisce un clima che il suo Testamento gli inibisce o, per lo meno, non gli permette ancora. Egli è oramai il vino nuovo costretto dentro all'otre vecchio; e perciò l'otre vecchio — la trama delle inibizioni legali del vecchio patto — gli cresce attorno come un'ipocrisia rispetto al suo nuovo cuore. Ecco perché la sua osservanza, la sua giustizia veterotestamentaria ha tutti i connotati della purezza farisaica: una giustizia già ingiusta, una giustizia fuo-
ri tempo perché, nel Gran Rabbino, il tempo dello spirito è ormai sfasato rispetto al tempo della storia, il suo cuore già presentisce ciò che non è ancora, ed egli non può uscire dal dilemma perché è un uomo del Vecchio Testamento ma che, nella sua inquietudine e nel suo dubbio, si tende disperatamente al Nuovo, lo chiama, lo intravede, già forse lo vive interiormente, nella sua profetica angoscia. E lo scontro finale che lo oppone al suo discepolo Shemaia, fedele al suo primo insegnamento, acquista tutta la tragica grandezza di uno scontro tra i due Patti che non hanno ancora colto il senso della continuità ma solo lo scandalo della contraddizione («beato chi non si scandalizzerà di me» dirà in seguito il Cristo). Shemaia, fedele al primo intransigente Ben Shetach, si scandalizza («Turerò gli orecchi finché la voce di molti giorni cresca sulla voce di un giorno solo, finché la voce di Israele cresca sulla voce del suo Rabbino»). Anche il Rabbino si scandalizza di ciò che il suo cuore già presente («Ancora il maestro di Shemaia dimora nel mio intimo, ed io cerco di vincerlo ma non posso»). Soltanto il figlio di Ben Shetach segue con decisione la via nuova: decisione che è in lui piuttosto facile poiché si risolve politicamente senza forse il sospetto della gravità teologica che sta dietro al suo agire, e che pure, davanti al padre che chiede a Dio di mostrargli la via, trova parole illuminanti: «solo chi va trova la via. Chi china il volto rimane immobile per sempre».
Che una tale interpretazione cristiana del dramma di Moshe Shamir, ebreo, vada al di là dell'intenzione e della consapevolezza dell'autore è evidente e lo stesso Shamir ce l'ha confermato: senza asprezza, però, senza polemica, diremmo anzi con la cordialità di un'intesa di fondo. E lo stesso Shamir ci ha chiaramente detto di riconoscersi in Ben Shetach: in una figura, cioè, lacerata dal dubbio e in lotta tra due mondi. Forse — come succede spesso agli artisti — la sua intuizione ha superato il suo pensiero.
Di fronte all'impegno di un testo così intenso, che si vale di un linguaggio biblico dai turgori assai prossimi al rischio declamatorio, l'Istituto del Dramma Popolare ha realizzato uno spettacolo di grande dignità, seppure talvolta indulgente verso forzature di recitazione un poco enfatiche. Ci piace perciò elogiare soprattutto il più misurato degli attori: Gianfranco Ombuen, nella parte del capo degli insorti. Glauco Mauri ha dato vita alla difficile figura del Rabbino; Camillo Milli ha disegnato una saporosa ambigua figura di cortigiano. Assai belli i costumi.
Alla prima era presente il Capo dello Stato, l'ambasciatore di Israele, nonché numerossime personalità del mondo politico e culturale. Un consenso caloroso, sia per l'interpretazione che soprattutto per la scelta del testo, ha compensato la fatica davvero non piccola degli organizzatori. Una vera «festa del teatro» come è tradizionalmente denominata, e qualche cosa di più: un'occasione di incontro tra persone di diverse credenze e di eguale buona volontà sui più gravi problemi dello spirito.
ADRIANA ZARRI L'Osservatore Romano, Città del Vaticano, 27 Agosto 1961
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