La recensione
San Miniato, il mistero della conversione
La cinquantacinquesima edizione della rassegna dedicata al teatro di ispirazione sacra, bagnata parzialmente dalla pioggia di un atipico luglio toscano, ha visto come principale novità l'approdo all'Istituto del Dramma Popolare di un direttore laico, Franco Palmieri. In questa stagione la scelta del testo è caduta su Saulo di Tarso, mistero in quattro atti scritto nel 1914 dal lituano Oscar Vladislao De Lubicz Milosz. La folgorazione sulla via di Damasco, transitata dai testi sacri alla lingua corrente come ipotesi sempiterna di ravvedimento operoso, ha trasformato Saulo in San Paolo, un uomo sofferto e intollerante, vendicativo e astioso, in un essere nuovo e pronto a sostenere il mistero della vita.
In un impianto teatrale rinnovato rispetto al passato - spalti sopraelevati rispetto alla scena, in un approccio canonico che qui a San Miniato non ricordavamo - la regia di Maurizio Schmidt, che ha anche rivestito il ruolo di Saulo, pone l'accento sul mistero, sulla terra di nessuno nella quale l'uomo si muove come un cieco in cerca di un sostegno, mentre attorno a lui le forze ineluttabili del male, nelle sue mille forme, accompagnano un viaggio che sembra sempre sul punto di interrompersi. Splendido io narrante un Virginio Gazzolo altero e polveroso al contempo, misurato e rasserenante, in sincrono con la scenografia arcaica (che ricorda da presso un'antico allestimento de La vita è sogno, messo in scena alla fine degli anni Ottanta dal teatro Biondo di Palermo) desertica e solare di Emanuela Pischedda.
Mauro Malinverno, idoneo specchio riflettente di Saulo, ed Elisabetta Vergani, affascinante ed esotica Karommah, completano un cast affiatato per una pièce dove gli spazi di ciò che è suggerito o immaginato impongono alla rappresentazione la misura dell'assenza.
Mauro Martinelli, Sipario, Milano, dicembre 2001
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