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La recensione di Raffaello Lavagna
 

La recensione

 

Un paese dell'anima

Salire, ogni anno, sul colle sanminiatese non è tanto per il desiderio di andare a una qualunque festa del teatro, quanto piuttosto per andare ad un appuntamento, ad un incontro dell'anima, ad una festa dello spirito. Che è un salire, veramente, e respirare non solo un'aria più pura, più ossigenata materialmente, quanto soprattutto un salire, un ascendere dalla bassa, e morta, gora teatrale ad una viva, e polemica, altura, che bisogna conquistarsi sempre, sia pur con un paio di ore di spettacolo serrato, vibrato, tutto teso, e che non ti concede tregua. D'altronde, basta leggere i titoli di qualcuna delle edizioni di queste manifestazioni teatrali: "La Maschera e la Grazia" di Ghéon, "Assassinio nella cattedrale" di Eliot, "È mezzanotte, Dottor Schweitzer!" di Cesbron, "I dialoghi delle carmelitane" di Bernanos, "II potere e la gloria" di Greene: lavoro quest'ultimo dato, anzi ripreso, recentemente dalla TV, e che ha avuto il più alto indice di ascolti, e di consensi; a dire, e confermare, che la gente ha sete di Dio, di problemi religiosi, di «grazia»!
Ed è proprio attraverso quest'ultima parola «grazia», attraverso il suo prisma, che dobbiamo vedere, giudicare, gli sforzi dell'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato; una ricerca di motivi spirituali di alto livello, una indicazione di quello che è essenziale nella vita dell'anima: la necessità della grazia, la sua urgenza per la vita di ogni uomo.
Il nome stesso del lavoro scelto quest'anno "Sotto il sole di Satana" dal romanzo di Georges Bernanos, dice coraggiosamente il soggetto, la tesi, la impostazione e anche l'onere e l'onore di questa festa teatrale. D'altra parte, il nome stesso dell'autore scelto (e anche quello dei riduttori: Fabbri e Novelli) non potevano lasciare dubbi sui caratteri e l'intrinseco sviluppo della trama. Non c'era da illudersi, né da pensare che si trattasse del solito giuoco drammatico, in cui i personaggi si divertono sulla scena, chiacchierano terra-terra, vivono la loro quotidiana e precaria esistenza, magari in uno scintillante balenio di paradossi, con colpi di scena teatralmente «validi» — ma del tutto «invalidi» sul piano dello spirito, dello scavare a fondo nel cuore dell'uomo.
Un solo dubbio poteva affiorare: quello della diminuzione del lavoro nella trasposizione dal romanzo alla scena di "Sotto il sole di Satana". E il dubbio è rimasto, ma diciamo anche: che doveva rimanere. Come fare a tradurre tutte le sfumature delle descrizioni psicologiche dei personaggi, che il romanziere può descrivere a tutto suo agio nella pagina scritta, gettando il fascio della sua luce indagatrice nei più sottili meandri degli spiriti e delle anime? Come fare a trasferire sulla scena, a mettere a nudo sotto la luce dei riflettori l'intima essenza dei cuori, anche se questi riflettori sono profusi ovunque, collocati con astuzia, con ricerca sottile per cogliere gli effetti e le posizioni più efficaci? Qualcuno s'è, infatti, dichiarato disilluso della trasposizione dal romanzo al dramma scenico; per conto nostro, invece, dobbiamo dire un «bravo» onesto, e sincero, ai due riduttori del romanzo, Fabbri e Novelli, che hanno tentato veramente l'impossibile, che hanno voluto incarnare in personaggi, vivi sulla scena, un tema così struggente, così intimo e così personale (e anche soprannaturale) come quello della «grazia», e del tormento nella sua ricerca.
Detto questo, dovremmo parlare della storia del prete Donissan, del suo tormento, e delle due altre storie che si inseriscono sulla sua: quella di Mouchette, e della madre. Tre storie che si intrecciano, che si compenetrano, e sulle quali domina, e splende di corrusca luce, il personaggio chiave del sacerdote, toccato dalla grazia. Certo, è sempre problematica, e piena di trabocchetti (proprio scenici) la vita del sacerdote sul palcoscenico — le sue difficoltà, le sue sofferenze, i suoi tormenti, e anche le sue gioie, non sempre trovano l'angolazione giusta, che non è sempre facile vedere il mondo sacerdotale nella sua proiezione viva, e vera. Ma lasciateci dire che, quelli di Bernarnos, sono preti di autentica marca, sono preti che vivono (sia pure, forse, qualche volta, un po' intellettualisticamente) la loro passione, il loro martirio quotidiano. Che, la vita del sacerdote, a vederla giusta, ed a viverla davvero sino a fondo, è un martirio, deve essere un martirio quotidiano; è sempre un salire giornalmente sul proprio calvario, sull'esempio, e dietro Colui che il prete rappresenta, che egli sostituisce nel ministero quotidiano, e nell'amministrazione dei sacramenti, cioè della «grazia». Basterà citare qualche frase del personaggio-prete, precedute dalla descrizione, che riportiamo dal romanzo, per farci aiutare, e meglio illuminare: «Fu in quel punto che un getto di luce folgorante come lo scintillìo di un'immensa spada, radendo tutta la pianura offuscata, venne a rinfrangere sulla siepe il suo barbaglio d'oro» — per arrivare alle battute: «Qual'è il prete che non ha mai pianto d'impotenza davanti al mistero del dolore umano, d'un Dio oltraggiato dall'uomo, senza riparo? Chiudono gli occhi per non vedere! perché non vogliono, non vogliono vedere!». «Perché il vedere con l'anima, è un vedere quel che al più acuto sguardo resta impenetrabile, all'intuizione più sottile resta inaccessibile: vedere una coscienza umana».
Ma non lasciamoci prendere dal desiderio della citazione (si voleva solo stuzzicare il desiderio del lettore per riprendere in mano questo romanzo! — e in questo sarà il merito principale, e non piccolo, del dramma) e vediamo, invece, un po' da vicino questo Donissan, questo prete bernanosiano, che balza superbo in questo lavoro, la cui figura si staglia pura e integerrima sulla scena, in questo accostarsi alla figura di Mouchette, in questo sfavillare di luce, in questo dardeggiare (e illuminare) i bassifondi, i meandri più riposti della vita sensuale della piccola selvaggia Malothy — che non potrà rifiutare, alla fine, questa luce, questo sfolgorare penetrante della grazia, che raggiungerà la sua anima inquieta, il suo corpo ferito e squarciato dai colpi delle forbici, che hanno reciso in gola il filo della sua vita materiale, ma non il filo della speranza della grazia.
Il pubblico, possiamo dire (passando, e tirando le fila, sul piano della cronaca), possiamo dire veramente che è stato preso, e toccato, intimamente da questi temi che toccano i problemi più intimi dell'anima. E questo ce lo dimostravano anche le frequenti richieste da parte del pubblico agli attori: «Voce — più forte — alzate la voce». Era un voler sentire tutto, il non voler perdere una battuta, anche minore; che in questo teatro dell'anima è la battuta che incide, che trafigge a fondo, è la frase che illumina di bagliore improvviso un testo che manca spesso di una trama precisa, di un filo di facile e intuitiva conduttura teatrale. E questo ci porge il destro per una notazione alla regia: che, forse, ha tenuto eccessivamente bassi i toni della recitazione, per una ricerca di effetti, che, purtroppo, si perdono «en plein air» (lo spettacolo era sul sagrato della Chiesa di San Francesco). Effetti che, invece, in teatro e nell'intimità dell'ambiente chiuso, potranno trovare la loro naturale cassa armonica, là dove i toni, questi toni, potranno vibrare, e far vibrare, le intelligenze scosse dalle battute folgoranti, ed attenaglianti, del dramma.
Il Bosetti è stato un indovinato prete Donissan, Giachetti un comprensivo e umano Monsignor Demange, Mastrantoni un burbero ma anche benefico parroco Menu Segrais, Sanipoli, con la sua caratteristica voce, un tentatore maligno calibratissimo, mentre brava negli scatti felini del male, e poi nei passaggi difficili che cedevano alla «grazia», l'Adriana Asti. Né vogliamo dimenticare la (veramente un po' geometrica, ma funzionale) scena di Scandella, né tralasciare le musiche di Chiaramello, efficacissime nella loro sobrietà di commento all'azione.
Solo un rammarico; che questa festa dell'anima si perda sul bel colle sanminiatese, che la sua bellezza sia un privilegio per chi può salire da Pisa e da Firenze sul suo aprico cucuzzolo, che il godimento sia cercato solo da chi va, anche da lontano, a rinfrescarsi a questa sagra dello spirito. Ma la colpa non è degli appassionati sanminiatesi, ma di chi non capisce, o non vuoi capire: che il teatro è pur sempre (e lo dice un decreto conciliare): «Nobilis et prisca ars scaenica», un mezzo vivo di comunicazione sociale; la colpa è soprattutto di chi non vuol intendere che portare in giro lavori di questo genere, per esempio per l'Italia (come si fa per i classici, e magari di bassa lega) sarebbe non solo opera di squisita fattura spirituale, ma anche opera di alta cultura artistica.

RAFFAELLO LAVAGNA L'Osservatore Romano, Città del Vaticano, 28 Giugno 1965




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