La recensione
Un ben meritato riconoscimento
Da venturi anno l'Istituto del Dramma Popolare, di ispirazione cattolica, celebra nelle piazze e nelle chiese di questo affascinante paese toscano una «festa del teatro» che dovrebbe rintracciare, nel panorama complesso della drammaturgia d'oggi, un filone spiritualista, un messaggio — in senso lato — cristiano. Tra oscillazioni ed errori, illusioni e ingenuità, non sono mancate anche scelte coraggiose: prima del Concilio, ad esempio, con il testo di padre Turoldo; e oggi, senza dubbio, con la proposta di un autore spagnolo che ha in patria una vita assai difficile, che non è neppure un cattolico ma che pure ai cattolici del suo e di altri paesi propone temi di scottante riflessione. Antonio Buero Vallejo, che ha combattuto la guerra civile dalla parte giusta, e ha pagato di persona con una condanna a morte e otto anni di galera, si è poi dedicato al teatro imponendosi come una delle maggiori personalità della scena spagnola, pur tra mille ostacoli di censura: profondamente radicato in tradizioni nazionali che vanno dai classici al naturalismo dei drammaturghi colti e popolari ottocenteschi, egli vi immette il suo profondo travaglio personale, la tristezza e lo sdegno per il suo paese oppresso, dando vita a sanguigne parabole tragiche, di grande dignità morale e civile. Certo, i più giovani si pongono nella stessa Spagna, e dalla stessa parte della barricata, problemi teorici e artistici più avanzati: dal poco che se ne sa in Italia, appare forte, ad esempio, l'influenza brechtiana in alcuni gruppi di critici e di autori. Ma pur nella possibile contestazione dei suoi modi espressivi, la drammaturgia di Buero Vallejo merita il fervido riconoscimento che le è venuto dai cattolici di San Miniato, e il commosso applauso con cui il pubblico ha salutato l'autore.
Il concerto di Sant'Ovidio è tra le sue opere più recenti (1962). Ambientata in Francia alla vigilia della Rivoluzione, svolge una trasparente parabola sulle attuali condizioni del vinto, dello sfruttato, dell'oppresso, rappresentate in un gruppo di ciechi che un impresario spieiato e violento recluta per esibirli in un concertino alla fiera, al dileggio più che all'ascolto della folla. Uno di loro, il più fiero e ribelle, si rivolta e uccide lo sfruttatore; ma tradito da un compagno verrà decapitato. Vana dunque la rivolta? Forse; e tuttavia, la parabola si schiude a una risposta spiritualistica, su due piani: da un lato, la pietà che porta l'amante dell'impresario ad appoggiare i ciechi, a dare al più misero e debole di loro anche il suo amore; e dall'altro lato, la speranza la cui parola è affidata a un personaggio-coro, un intellettuale illuminista che prevede, attraverso la scienza e la cultura (ma non è certo solo allusione all'invenzione del metodo Braille), la futura liberazione di tutti i «ciechi». I sensi analogici della favola sono chiari, anche se non seguiremmo il candido entusiasmo dei cattolici sanminiatesi fino a identificare nel personaggio di Adriana il simbolo della Chiesa spagnola, complice prima dello sfruttamento e oggi di nuovo al fianco degli oppressi. Ci interessa però di più il tono che pervade la dolorante parabola: che è quello del grande tema dei vinti, del dolore sociale, caro alla grande tradizione naturalista, dove la pietà prevale sulla ribellione, e la sconfitta ha un suo desolato fascino.
Vi è un punto del resto nel lavoro, dove questa tipica angolazione «tradizionale» sfiora la violenza e la crudeltà di certo teatro più recente: alludo alla scena del concertino, in mezzo alle risate della folla. Abbandonata — o quasi — la parola per una situazione, qui la spontanea teatralità di Buero Vallejo potrebbe invadere la platea, portare lo spettatore di fronte alla vergogna di una realtà di cui è corresponsabile (l'oppressione di ogni tempo, ma anche questa oppressione, del franchismo). Ma proprio in questa scena mi è parso che la regia di Paolo Giuranna, corretta, rispettosa e intelligente, abbia mancato di un vero colpo d'ala, capisco quanto difficile e tuttavia indispensabile, che portasse — non so — il pubblico prima a ridere e poi a inorridire di se stesso. Così scentrato, invece, per quanto recitato assai bene e castigato nei suoi effetti più esteriori, il dramma continua a sfiorare il mèlo naturalistico, da cui non bastano ad assolverlo le sue degnissime intenzioni: anche perché c'è allora più cattiveria e fantasia di ribellione in un classico spagnolo — lo cito per analogia forse non gratuita — come il Lazarillo de Tormes, dove persine un cieco può essere «maldito», maledetto, quando sfrutta l'allegro e disperato ragazzine picaro.
Lo spettacolo, messo in scena dal Teatro Stabile di Genova su un'ampia scena tripartita di Gianfranco Padovani, si avvale, come si è detto, di ottime prove di almeno tre attori: il Garrani, la Morlacchi e l'Antonutti, e di un buon contorno anche nelle parti minori, ed è stato molto applaudito.
BRUNO SCHACHERL, Rinascita, Roma 1 Settembre 1967
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