La guerra di Malaparte
L'attuale dilemma che consiste nell'ammettere o non ammettere un "colpo di spugna" per responsabilità trascorse è divampato quasi con prepotenza, e anche con lirismo, in una versione scenica del film Il Cristo proibito di Curzio Malaparte su cui fa affidamento la XLVIII Festa del Teatro promossa dall'Istituto del Dramma Popolare. Bello spettacolo. Serio, Colmo di enigmi e di sete di giustizia. Non consolatorio. In coincidenza con la nuova direzione organizzativa di Fulvio Fo, il merito maggiore di una tale temeraria scelta (Malaparte genera sempre riserve, per la sua arbitrarietà) sta nell'aver suggerito concause di spettacolo e di civismo.
Tra gli ingredienti: l'angoscia sacra e quella laica, anzitutto, di un universale anche se toscano dopoguerra; l'accostamento tra un autore così irto e aggressivo e un co-adattatore umano e minuzioso come il drammaturgo Ugo Chiti; un'epoca post-bellica di idealismi con ultime (e campagnole) propaggini neorealistiche affidata a un regista e co-riduttore giovane qual è Massimo Luconi, per altro già fornito di un curriculum malapartiano; e in tale messinscena convergono tre fasce di attori, quella matura e carismatica di De Francovich e della Morlacchi, quella irrequieta di Bigagli, e quella corale e genuina del gruppo Arca Azzurra. Ne è nato un affresco irrequieto, nitido.
E dire che i prodromi furono un po' avventurosi. Contrattualmente definito "romanzo" nel '47, trasformato nel '49 in soggetto e poi in sceneggiatura, proiettato nel '51, Il Cristo proibito (collocabile tra Kaputt e La pelle) ottenne assieme a Miracolo a Milano e a Napoli Milionaria un premio selezione a Cannes, e a Berlino si vide attribuire l'Orso d'argento per gli interpreti Raf Vallone ed Elena Varzi, ma in Italia sollevò soltanto ire e critiche. Vi si dibatte la spinosa piaga della perseguibilità o meno di chi abbia commesso atti disumani nell'arco della guerra e di scontri fratricidi, con pendenze di vendette ineluttabili, personalismi luttuosi. Su tale sfondo ogni sacrificio oggettivo per la causa sembra, appunto, proibito, e Malaparte oppone la tesi (profana, in lui) di un individuo che sappia sacrificarsi per tutti, scontando i mali degli altri, rimediando, e mediando. Le 525 dettagliate o intense scene del film si traducono in 17 scene teatrali. Tre monoliti di fattezze rurali toscane si riveleranno anche, volta a volta, gusci domestici o basamenti alle cui falde si snoderanno rituali di piazza, di paese, di culto (mai, però, vi si confonde un vero religioso, o un delegato del potere).Qua e là vengono impresse, forse al posto della voce narrante del film, immagini di prigionieri di guerra. Il colpo d'occhio meditato da Luconi è ascetico, alla pari dei microcosmi contadini che appartennero a Volta la carta e a La provincia di Jimmy di Chiti. Vi subentrano, reduci da 10 anni di Russia, Bruno e Andrea, dopo un fortunoso ritorno alla base. Bruno sa già che il fratello minore partigiano è stato tradito da uno della comunità, finendo fucilato. Ha una sola ansia covata da tempo: scovarlo e punirlo.
In pratica la sua apparizione mette in allarme chiunque. Ognuno sa, conosce l'identità di quel delatore, ma per fatale disincanto e disperata voglia di quiete, prevale ormai il diffuso criterio del voltar pagina senza più spargimenti di sangue. Un segno dei tempi cui Bruno non può aderire. Nell'edizione dal vivo di oggi questa inadeguatezza di Bruno a un clima di condono e vissuta da Claudio Bigagli in modo stoico e tragicamente intimo, con un'inanità molto espressiva, con un divagare impalato e nervoso, la nuca appena in avanti, i pugni chiusi. Dopo il calvario del rimpatrio con Andrea (Marco Natalucci), gli si prospetteranno vari tipi e iconografìe di croci. Entrerà in contatto con una madre dignitosa ma generosamente "muta" (una cerea, fervida, considerevole Lucilla Morlacchi), con un padre più alienato che burbero (Dimitri Frosali), con l'ex sorellastra-fiamma Maria (Ilaria Daddi) che per compensazione s'era donata al fratello poi ucciso, e con la già simpatizzante Nella (Patrizia Corti) che ha sulla coscenza i rapporti finalizzati coi tedeschi e il rango di sorella di Pinin (Andrea Costagli), artefice di quella tremenda spiata.
La panoramica su tale dramma, cui Chiti ha riservato più vocii d'assembramento, più palpitazioni e incubi, più ambiguità e secchezze, ha un suo acme con la processione e coi moniti dell'Eremita (un santone, più che frate, cui Massimo Salvianti sa dare accenti di democrazia, contro un Cristo dei padroni), finché il culmine è rappresentato dall'impatto col Padre o Mastro Antonio (un Massimo De Francovich di formidabile e alta comunicativa), emblematico falegname che deve affrancarsi da una lontana trasgressione e che sceglie di far da capro espiatorio con Bruno, facendosi ammazzare, neutralizzando ogni ulteriore anelito di ritorsione, spirando in una scena che viene coperta da una sudario. La regia di Massimo Luconi ha calibrato i silenzi e gli echi di Rabagliati, il cinema d'autore e una drammatizzazione sul campo, primattori e compagine, moralismi di ieri e affanni di sempre. Impianto di Stefania Battaglia e costumi di Giovanna Buzzi.
RODOLFO DI GIAMMARCO, La Repubblica 17 luglio 1994
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