Con Strindberg è il non teatro
La grande strada maestra, che nel 1909 concluse l'attività di drammaturgo di August Strindberg, così come conclude l'ultimo dei 5 preziosi volumi Mursia curati da Andrea Bisicchia e dedicati al teatro completo del grande scandinavo, viene definito come uno «Stationen Drama», ossia dramma itinerante, a tappe, la cui struttura episodica è modellata sulle stazioni della Croce. Per il suo contenuto indubbiamente religioso viene anche spesso accostato al precedente Verso Damasco l'opera della conversione e del misticismo, della quale può essere letto come una quarta ed ultima parte; ineccepibile la decisione di dedicargli la XVI Festa del Teatro di San Miniato, dove una volta l'anno viene proposto un testo problematico, di solito dedicato al rapporto uomo-Dio.
Naturalmente, si tratta di Strindberg, e per di più dell'ultimo Strindberg, quello che batteva strade nuove e audaci senza curarsi di sconcertare lo scarso pubblico della piccola sala (160 posti) che dirigeva, consacrandola alle sue ricerche: un autore che per temi e modi spesso era in anticipo sull'epoca sua, ma che forse nemmeno la nostra è ancora in grado di assimilare in pieno. Nella Grande strada maestra Bisicchia sente addirittura un preannuncio della maniera epica di un Brecht; senza dubbio c'è il disprezzo delle forme convenzionali, del facile modo di conquistare l'attenzione mediante strategie collaudate, sulle orme del Maestro Ibsen. Avendo ora abbandonato ogni realismo, Strindberg presenta figure simboliche, le cui interrelazioni avvengono solo sul piano del linguaggio e della poesia. Il suo protagonista è uno Jedermann visto durante le 7 soste di un progresso non verso la pace, ma verso il riconoscimento dell'impossibilità della medesima; alla fine la sua resa a Dio avviene nel ricordo di Ismaele il ribelle. «Benedici l'umanità che soffre», egli dice al suo creatore, «perché Tu le hai dato la vita! Benedici per primo me, che ho sofferto di più, che ho sofferto l'atroce dolore di non essere colui che volevo essere!» In precedenza costui, definito un Cacciatore e impegnato in un viaggio verso una vetta, si è confrontato con vari interlocutori, a cominciare da un Eremita e da un Viaggiatore che lo accompagna per un tratto e col quale egli si apre in parte: reduce da grandi altezze, sta provando la strana gioia del senso di ritrovare la terra. Dopo altre confidenze con una misteriosa Ragazza, il Cacciatore approda in una swiftiana città degli asini, dove nel contrasto fra un Maestro e un Fabbro sono presentati esempi di fatuità e presunzione intellettuale. Più avanti c'è Thofeth, città del peccato e dei rifiuti; qui il Cacciatore ascolta un Giapponese che dopo aver tentato di riscattare errori passati vivendo a lungo nel rispetto dell'ordine sociale, ha ora dignitosamente deciso di suicidarsi. Ci sono poi l'incontro con Moller, l'assassino che ha scaricato i suoi delitti sull'assente Cacciatore; la visione di un Giovanetto, ultimo ideale di purezza; e gli ultimi contrasti, con una Donna, che ricorda certe sconfitte, e con un Tentatore, che esige crediti, emblema di una società arida che rinfaccia i suoi doni. Il Cacciatore scaccia entrambi e rimane solo sul ciglio della foresta. Ha molto combattuto, anche contro Dio; ma adesso si arrende all'onnipotente Bontà.
Neanche in questo denso lavoro, che può addirittura essere letto come il suo testamente spirituale, Strindberg mostra di avere perso l'eloquenza, o il senso del dialogo, anche se a quest'ultimo viene concesso di brillare solo con avara episodicità. Ma inseguendo la necessità di evolversi, egli ripudia ogni convenzionalità di forma, e più che Brecht sembra anticipare Schoenberg e la musica seriale nel suo prescindere da quanto l'orecchio umano si è abituato a trovare accattivante, rassicurante, scorrevole. Il disagio con cui La grande strada maestra fu accolto dal pubblico dell'Intima Teater non ci meraviglia, le cose infatti non sono migliorate. Può perfino darsi che la fatica con cui, pur dopo Beckett, lo seguiamo, dimostri che insieme a certe fruste convenzioni del palcoscenico borghese Strindberg ne aveva espulso quel qualcosa, chiamiamolo ritmo, chiamiamolo tensione drammatica, chiamiamolo sorpresa, senza il quale un lavoro non riesce a farsi ascoltare. Dico questo perché tanto la traduzione-adattamento di Enrico Groppali, quanto la semplice e austera regia di Mario Morini, che forse però avrebbe potuto sottolineare gli stacchi fra le fermate, sono sembrate rispettosissime del dettato, né trovo da ridire nella prestazione degli attori, dal sobrio e intenso Massimo Foschi al suo degno contraltare Carlo Simoni (il Viandante), al delicato Mico Cundari (il Giapponese), alla malinconica Milena Vukotic, cui sono affidati più ruoli. Il tutto dura solo 90', ma alla fine noi ascoltatori eravamo provati; e gli applausi sono andati alla visione di Strindberg più che al suo funzionamento.
MASOLINO D'AMICO, La Stampa, 22 luglio 1990
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