UNA VITA DI TRIBOLI CHE MERITA PIETÀ
Quarantaquattro, e non sono poche, le Feste del Teatro di San Miniato. L'Istituto del dramma popolare alimenta ogni anno la speranta che sia ancora possibile rivalutare o scoprire un repertorio, se non cristiano o addirittura di ispirazione cattolica, almeno attento ai valori spiritualistici del nostro tempo. Da Eliot a Claudel, da Maulnier a Fabbri, da Graham Greene a Bernanos, dall'ebreo Moshe Shamir a un "certo" Karol Wojtyla, il segno di una grande o, comunque, interessante drammaturgia contemporanea della fede è pur rimasto, quantunque senza mai suscitare un'eco forte al di là di questi dolci colli toscani, gli spettacoli di San Miniato soffrendo da sempre del limite di troppo brevi cicli di repliche e della intrasportabilità.
Riflesso della situazione difficile in cui si trova a operare oggi un istituto che vuole essere "del dramma popolare" (sottolineo l'aggettivo) mi sembra, quest'anno, la scelta di un testo, La grande strada maestra, scritto da August Strindberg nel 1909, tre anni prima di chiudere la sua tormentata esistenza, e nel quale si può forse leggere, come in un testamento dettato dalla paura della fine imminente, una invocazione alla divina pietà.
La grande strada maestra è la testimonianza di un viaggio che comincia dalle regioni impervie dei triboli umani, «alpi, precipizi, orridi e valichi», e cala giù giù verso la realtà della vita, fino a «un bosco avvolto dalle tenebre» al di là del quale è l'eternità dell'ultimo mistero. Viaggio mentale, si intende, che il Cacciatore, personaggio emblematico, compie avendo accanto, per un qualche tratto, l'altro sé stesso, il Viandante, e lungo il quale si imbatte in una serie di raffigurazioni dell'ipocrisia, delle falsità, delle cattiverie, dell'indifferenza del mondo.
Difficile, oscura, ambigua, contorta parabola che la traduzione di Enrico Groppali restituisce alla nobiltà di un controllato linguaggio, e che la regia di Mario Morini ha composto con estremo rigore nell'austera misura di un oratorio. I costumi di Anna Maria Heinreich e la scena di Stefano Pace che aveva, purtroppo, il torto di occultare le nobili architetture della piazza del Duomo sanminiatese, hanno definito uno spettacolo fondamentalmente affidato alla interpretazione, solenne e intensa, di Massimo Foschi, col quale si sono fatti applaudire, da un pubblico non vacanziero, Carlo Simoni, Milena Vukotic, l'assai incisivo, colorito Giancarlo Condè, Mico Cundari, Gianluca Farnese, Eliana Lupo, Antonio Cascio, Stefano Gragnani, Elettra Farnese.
Non si replica, s'è detto. Peccato, ma sarebbe stato estremamente arduo poterlo fare.
CARLO MARIA PENSA, Famgilia Cristiana, 8 agosto 1990
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