La recensione
San Miniato: "Alce Nero" attende un nuovo messia
L'opera rappresentata quest'anno a San Miniato in occasione della venticinquesima «Festa del teatro» ha fatto diventare ancora più bianchi i «visi pallidi» che vi hanno assistito. Alludo alla vergogna che ancora si può provare — noi smaliziati ed evoluti occidentali — al ricordo di quella triste pagina che fu la progressiva soppressione della stirpe e della civiltà dei Pellerossa d'America nella seconda metà del secolo XIX. S'intitola «L'erba della stella dell'alba». Ne sono autori due esordienti: Amieto Micozzi (41 anni, arrivato al teatro dopo svariati mestieri, attualmente traduttore, sceneggiatore, autore di trasmissioni radiofoniche e di telefilm), e Marcello Aste (31 anni, romano, esordiente come attore proprio a San Miniato nell'opera di Fry, assistente dal '65 di Squarzina al Teatro Stabile di Genova, con all'attivo allestimenti di opere di Giuliani, Penili, Jonesco, Frassineti, Sanguineti, Fagliarmi, Havel, Mrozek, collaboratore della Rai-TV). La regia è dello stesso Aste. Il complesso è quello dello stabile di Genova.
Lo spettacolo narra la vicenda di Alce Nero e della sua tribù: la tribù degli Oglala. Del suo assorbimento nella società dei bianchi, della perdita della individuazione etnica e culturale, della forzata accettazione della vita di riserva e conseguente abbandono delle praterie, della peregrinazione di Alce Nero e di alcuni dei suoi attraverso l'Europa al seguito di Buffalo Bill come numero d'attrazione della «compagnia del West selvaggio», e del successivo smarrito ritorno alla tribù d'origine, definitivamente prostrata e infine distrutta.
L'opera nasce quindi su un humus storico autentico. Ma vuol essere tutt'altro che una ricostruzione storica; a confessione degli stessi autori, essa non prevede un'indagine e un'analisi delle circostanze che hanno caratterizzato la storia dei Pellerossa. Con questo spettacolo essi hanno cercato di «immaginare le gioie e i dolori di un uomo completamente immune dai codici psicologici, politici, che definiscono il nostro agire quotidiano. Alce Nero si muove in uno spazio leggendario, dove i riferimenti storici si trasformano».
In un colloquio che ho con lui, Marcello Aste aggiunge: «Il palcoscenico è un luogo libero, ci si possono anche inventare esseri inesistenti, magici, da utilizzare per rigenerare le nostre possibilità fantastiche e liberatrici per sciogliere le congestioni di sentimenti prefabbricati. Io cerco di mettere lo spettatore in grado di ricevere gli stimoli secondo la propria sensibilità. Lascio sempre aperto il discorso». Aste, cioè, con un certo anticonformismo, ritorna al concetto classico dell'importanza del veicolo emozionale per la trasmissione di un messaggio. E i risultati, tranne qualche incertezza di cui diremo, gli danno complessivamente ragione. Il dar semplici spunti, riprendendoli spesso, il trattare lievemente la materia, l'uso frequente del canto, in definitiva la «musicalità» dei suoi allestimenti, predispone meglio lo spettatore — e quello sanminiatese ne è stato sicuramente contagiato — al recepimento dei contenuti, anche se in termini meno avvertibili. La tanto discussa «poesia» torna insomma ad adempiere il suo dovere.
Si lascia la suggestiva piazza antistante il Duomo con la coscienza e l'intelletto smossi, turbati da un problema che forse avevamo già sepolto e ancor più scossi dalla attualità di certi problemi toccati dallo spettacolo: la perdita di «umanità» nella società «evoluta», l'esclusione dai suoi benefici e la lenta agonia di larghe fasce di popolazione, la falsa integrazione di altre (appendici puramente vegetative, stranieri inconsapevoli a se stessi e a quelli che li ricevono), la struggente attesa dei diseredati di un evento esterno che li salvi, la scoperta, da un'ottica completamente nuova, delle contraddizioni crudeli della nostra civiltà, la coscienza che il confine, l'antico confine tra sfruttati e sfruttatori, passa in modo così brutale anche tra noi, emarginando anche in Sardegna chi è rimasto indietro (se non è già emigrato) agli altri.
Le lacune dello spettacolo non riguardano, come abbiamo visto, la regia che ha ben usato lo strumento che aveva scelto, né altri suoi aspetti tecnici (ottime le musiche di Piero Piccioni e le scene e i costumi di Gianfranco Padovani, e molto fusa e precisa la corale interpretazione degli attori, tra cui Maria Grazia Spina, Edda Valente, Guido Lazzarini e Ugo Maria Morosi che sembrano i più efficaci, oltre a Brogi di cui parleremo a parte). Ma riguardano l'opera di per sé, come scrittura scenica. Tutto il primo atto è lento e prolisso, condizionato troppo dalla necessità di presentare l'ambiente e la condizione dei componenti la tribù. Il prezzo pagato alla decisione di non fare un'indagine storica è quello della caduta, qua e là, nella insidia della pura enunciazione, mentre il dolore e la rabbia degli Oglala avrebbero dovuto scontrarsi con delle posizioni avversarie che li facessero risaltare. Mancano cioè i personaggi e quindi i veri contrasti drammatici. E ne soffre, ad esempio, la critica al fatalismo e all'attesa messianica di un aiuto esterno: che ci sarebbe piaciuto sentir ribadire da due autori così giovani e certo al corrente della stupenda lezione di Brecht a riguardo.
Un cenno a parte fra gli attori merita Giulio Brogi, prossimo «Enea» televisivo. Il teatro italiano guarda a lui con grande speranza, specie ora che comincia una fase di lavoro completamente nuova e con grandi maestri (è stato assunto dallo Stabile di Genova).
Brogi possiede il dono raro della naturalezza e della semplicità. In lui non incanta il metallo della voce o il portamento d'accademia: è quello che si dice un attore all'italiana, tutto istinto e intensità. Per giunta è moderno: «butta» la battuta e ha ritmo.
Dopo quanto scritto sullo spirito e i fini dell'Istituto del Dramma Popolare, sorge a questo punto una domanda: risponde o no quest'opera a quello spirito e a quei fini? Indubbiamente, la spiritualità e la religiosità di una tribù Sioux della seconda metà del secolo XIX sono storicamente pagane.
Vi è, è vero, tra i fini dell'Istituto, anche quello di «verificare quanto nella realtà c'è ancora di cristiano e quali siano i segni che possono profetizzare una nuova stagione del cristianesimo, da qualunque parte e popolo e cultura essi vengano», ma non ci sono ugualmente gli estremi per un'accusa di eccessiva spregiudicatezza, quasi di eresia? Forse che il Vangelo non basta e abbisogna di integrazioni da parte di religioni pagane?
Gli organizzatori rintuzzano quest'accusa: «È cristiana la verità che si incarna, come parola scritta il Vangelo non ha bisogno di integrazioni, ma come parola incarnata l'orizzonte si apre a una quantità di apporti».
Entrando nel merito dello spettacolo, essi così proseguono: «un popolo che concepisce la vita come un circolo sacro tra Dio, il suo popolo e la natura, che nella morsa di una persecuzione che lo ricaccia sempre più in giù comincia a sperare e si aggrappa alla fede di un Messia, un uomo a cui Dio stesso ha dato la conoscenza dei suoi segreti e la forza per la missione; e ancora: il viaggio emblematico che Alce Nero compie attraverso il dolore della sua gente, la sua avventura in Europa tra il dileggio di una umanità cialtrona e il ritorno finale al suo popolo smarrito, tutto ciò come può non esprimere una misteriosa lievitazione evangelica, non ha forse la drammatica intensità di un Calvario?» La conclusione sembrerebbe plausibile.
Ma trova un ostacolo decisivo nella impossibilità di conferire ad Alce Nero lo spessore, in termini di chiaroveggenza, sicurezza e coscienza del proprio destino, di un Cristo. Da attore istintivo, Brogi proprio sugli aspetti salienti del suo personaggio ha fatto leva. Che sono di segno completamente opposto a quelli: di Alce Nero egli ha scavato tutta l'ambiguità, i dubbi, le esitazioni, le confusioni (rendendo quindi un ottimo servizio alla osservazione di un aspetto dell'opera e del personaggio che altrimenti sarebbe sfuggito).
Aggiungerei che un'imperfetta sovrapposizione delle due parabole e dei due personaggi non guasta, proprio per rendere attuale (e in parte usufruibile anche per noi) il cristianesimo «pagano» degli Oglala, secondo gli intenti di San Miniato. Essa ci riporta alla nostra epoca e ai suoi limiti, ai suoi anti-eroi e anti-martiri, ai suoi rappresentanti confusi e sperduti: l'«eroe bastonato» di Brecht, il tortuoso «Ulisse» di Joyce, i due vagabondi di Beckett (in attesa, loro, di un Godot), i personaggi dei film di Fellini e Antonioni... Non crediamo sia nello spirito di San Miniato questo desiderio di compiutezza, di perfette sovrapposizioni e identificazioni, che porterebbero a ricreare un teatro fideistico e devozionale.
San Miniato deve rimanere «aperta», «arrischiata». Alla fine lo spettacolo si rivela comunque sintonizzato alla fisionomia di tutte le «feste» sanminiatesi: fa discutere, scava dubbi, inquietudini.
Del resto, quest'anno per l'«Istituto», altre verifiche erano più urgenti e importanti. E sono state più che lusinghiere. Volendole condensare in un bilancio conclusivo, si può porre l'accento maggiore sull'indovinata scelta dell'idea centrale, della scelta culturale cioè poggiante sull'accennato binomio teatro-religione. Esso era nel '47 (e lo è tuttora) un concetto profondamente radicato nella sensibilità della popolazione. Un organismo che vi si fosse ispirato e attenuto, sarebbe stato saldamente ancorato al tessuto sul quale operava. Quest'idea fu portata avanti da uomini di prim'ordine, intelletti forti e perseveranti, col gusto di quell'imprenditorialità culturale ormai quasi tramontato. E a quegli uomini la città ha sempre prodigiosamente effetto un ricambio di identico segno. Ne è testimone la fisionomia umana e culturale dell'attuale direttore don Ruggini.
Nessuna conclusione ci sembra migliore di quella di far nostra, oggi, un'affermazione del '55 di Silvio D'Amico: «Un istituto come questo, il quale sia sorto con il compito di richiamare, e richiami in realtà, il teatro alla sua funzione più alta e più essenziale, al suo compito spirituale, non ha l'eguale nel nostro paese».
MARIO FATICONI Nuova Sardegna, Sassari, 25 Settembre 1971
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