La storia di un'anima in cui specchiarci con Strindberg da San Miniato a Gozzano
Le due circostanze - quella tradizionale sanminiatese e quella attuale gozzanese - ci hanno costretti ad un ripensamento immediato sull'opera teatrale La grande strada maestra di Strindberg proposta per la prima volta in Italia dall'Istituto del Dramma Popolare soprattutto al fine di comprenderne le «voci di attualità», che possano essere facilmente accolte anche dal pubblico gozzanese e novarese in genere, che ha il privilegio di assistere all'opera già all'indomani delle repliche di San Miniato, questi 27 e 28 luglio.
Difficoltà dì drammatizzazione
Ora, La grande strada maestra è un testo di incredibile profondità, che si lascia facilmente accostare nella lettura, meno nella realizzazione scenica. Si tratta - come dicevamo - dell'opera ultima di August Strindberg, nato a Stoccolma il 22 gennaio 1849, e morto nel 1912 per un tumore allo stomaco. Durante la sua non lunghissima, ma tormentata esistenza - ebbe accanto a sé tre donne, ma alla fine si ritrovò solo - Strindberg lottò sempre, impietosamente, con Dio, che alla fine però seppe soggiogarlo e vincerlo con la potenza della sua bontà e della sua misericordia.
La grande strada maestra ne è la testimonianza diretta, tanto che la si può considerare il suo testamento spirituale.
Infatti, La grande strada maestra non è, in prima e diretta analisi, che la storia di un'anima, quella di Strindberg, che, in sette «stazioni» diverse (quasi «stazioni di una via crucis interiore»), passa dalla bestemmia all'incontro con la fede, dopo aver toccato tutte le profonde abiezioni del cuore e della mente umani.
Teatro autobiografico, dunque, anche se magistralmente teatro, cioè qualcosa che diventa parte viva dell'intera umanità. Infatti La grande strada maestra è, almeno in seconda battuta, la storia nefanda e stupenda insieme di ogni uomo peccatore (e chi non lo è?) e dell'umanità tutta, che, dal vertice di una cima, scende su se stessa, si ripiega, si scruta, si analizza con coraggiosa durezza, e ne trae motivo di risveglio e, infine, di pace con Dio.
Storia sublime
Si tratta dunque di qualcosa di esaltante, che giustamente si può chiamare, come ha fatto don Marrucci nella conferenza-stampa di presentazione, «teatro dell'anima».
Eccoci infatti alle «sette stazioni».
Il cacciatore (interpretato in modo eccezionale da un Massimo Foschi in grande vena) è alla ricerca di qualcosa e di tutto. Da un luogo di cime e di dirupi, si muove lungo una strada, che egli presumerà essere quella «maestra» e «grande», ma che in realtà si manifesterà alla fine come un sentiero dirupato, stretto e scosceso, verso quel qualcosa che lo attrae misteriosamente, ma a cui non sa ancora dare un nome.
Nella seconda «stazione» il cacciatore si imbatte nei mulini a vento, cioè nell'orgoglio smisurato dell'umanità, che lotta apertamente anche, contro la Divinità.
Nella terza «stazione» l'incontro è ancora più avvilente: si tratta dell'angolo degli asini, in cui la stupidità si associa alla presunzione.
Ed ecco la quarta «stazione»: è il mercato cittadino, vociante e petulante, in cui affiorano ad ogni passo la disperazione ed il tradimento.
Quinta «stazione»: ci avviciniamo alla fine, con la vista del crematorio, che ricorda al cacciatore l'inutilità di tutto, esistenza compresa, se non realizzata.
Nella sesta «stazione», posta di fronte all'«ultimo cancello», ritorna l'ottimismo: una tenera bimbetta (interpretata da una mirabile Elettra Farnese) ripropone al cacciatore il tema della semplicità evangelica («Se non diventerete come questi bambini...»). mentre il cacciatore stesso si considera uomo alla perenne ricerca (il mitico ebreo errante Ahasverus), e dunque già sulla strada della verità, come ci dice s. Agostino.
Ed eccoci, infatti, all'ultima «stazione» dal buio della foresta comincia a filtrare la luce, che è quella di Dio, contro cui il cacciatore aveva sempre combattuto, ma che più o meno inconsciamente ha cercato sulla «grande strada maestra» dell'umanità.
E qui auguro ad ognuno dei miei quindici Lettori di poter, oggi o domani non importa, leggere e gustare (pubblicato qui sotto) lo stupendo monologo finale del cacciatore, che è poi anche la chiave di lettura immediata dell'opera di Strindberg.
La realizzazione
Ma tutto sarebbe semplice e lineare, palpabile nella sua concretezza cristiana, se questo di Strindberg non fosse, invece, un testo da rappresentare.
E' quello che è avvenuto a San Miniato la sera di giovedì 19 per la stampa, le sere successive per il pubblico, le sere di venerdì 27 e di sabato 28 luglio per il pubblico gozzanese, un dramma letto è una cosa; rappresentato, è, decisamente, un'altra.
Infatti, abbiamo visto a San Miniato uno splendido Carlo Simonì presentare il suo «Viandante», quasi un «pellegrino controfigura» del cacciatore.
Mito Cuadari; poi, è stato sublime nelle due parti dell'eremita (la partenza verso la fede, in mezzo ai dirupi) e del giapponese (il nichilismo assoluto, ma forte di una certezza interiore).
Milena Vukotic, da quella eccezionale attrice che è, è stata via via una ragazza che indica al cacciatore lo zenith di arrivo (il punto massimo, cioè, contrapposto da Strindberg al nadir, la lunga via tortuosa e mortificante, attraverso cui si arriva alla meta): questo è stato il momento interiormente positivo. Ma poi c'è stata l'altra Vukotic, come donna prima e poi, soprattutto, come seduttrice e tentatrice (stesse facce dell'«eterno femminino?»).
Dal canto suo, Giancarlo Farnese ci ha presentato un curioso fotografo, specchio dell'anima umana, che ne ha paura, quasi ribrezzo: ed il suonatore di organetto, al limite fra il possibile e credibile e l'impossibile e surrealistico: ed infine l'accompagnatore, in cui la vicenda è confusa perché non sa dove portare il suo accompagnato.
A dare infine, un tocco deciso di positività al dramma di Strindberg, è intervenuta ancora una volta la recitazione assorta della Vukotic, che, nell'ultima «stazione», dea, ma spiritualmente ed interiormente veggente, comincia ad indicare la «grande strada maestra» al cacciatore. «Non devi credere in me, non devi credere in nessuno: solo in Dio».
L'interpretazione è stata, dunque, eccellente, anzi, diremmo, superba: forse un po' barocca, nella sua concitazione violenta, ma certo aderente allo spirito del testo.
Le difficoltà
Ma proprio questo tipo di interpretazione, e qualche altra cosa hanno pesato un po' sugli spettatori dell'anteprima, quando, per la prima volta in tanti anni che frequentiamo San Miniato, si è avuto l'inconsueto episodio di uno spettatore, che, spazientito e disperso, ha replicato a voce alta al cacciatore, e poi se ne è andato altrove. Che cos'è quell'altra cosa?
A nostro avviso anzitutto la scenografia, praticamente annullata dal pur bravissimo Stefano Pace, che ha ricostruito un'altissima città, e poi ha fatto scorrere sullo schermo di fondo immagini temporalesche, senza però rendere l'atmosfera che Strindberg aveva immaginato e descritto per le sue sette «stazioni».
Ma, a nostro sommesso avviso, è stata anche la scelta del regista, il noto e bravo Mario Morini, di unire in un atto unico, praticamente senza soluzione di continuità, tutta la storia. Ne è risultato uno spettacolo eccellente da un punto di vista scenico e teatrale; difficilino, se non difficilissimo, nella interpretazione dei più.
E qui non vogliamo entrare in dibattito con l'istituto che dice di essere del Dramma Popolare, ma ci auguriamo solo due cose: che queste difficoltà non intralcino la venuta della «piéce» strindberghiana a Gozzano in queste sere, e che molti appassionati (prima o dopo la rappresentazione, non importa) si accostino al testo scritto de La grande strada maestra per rileggersela e gustarsela in serenità ed ammirazione intellettuale, morale, umana e spirituale.
Opera cristiana?
Allora La grande strada maestra di August Strindberg è un'opera cristiana? Lo è a piene mani, decisamente e stupendamente. Come lo è dal punto di vista drammatico e strutturale. Capirla nelle sue profonditi di primo acchito non sarà facile: ma poi, alla fine sarà chiaro, certamente più di prima: fra Giacobbe che combatte con l'angelo e l'uomo che insulta Dio, la comunione è stretta, perché in ambedue i casi, ci dice Strindberg, a vincere sarà sempre Dio.
BARTOLO FORNARA, L'Informatore e Il Verbano, 28 luglio 1990
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