Mario Scaccia, amabile dandy
Il teatro di Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), lo scrittore inglese rimasto famoso, principalmente, per aver creato il personaggio del prete-investigatore Padre Brown, è praticamente sconosciuto in Italia: non troppo nota, del resto, è da noi anche la sua stessa figura di importante narratore, di saggista e di brillante polemista, tanto interessato ai problemi della fede e dello spirito da maturare anche una clamorosa conversione al cattolicesimo. Bene ha fatto, quindi, almeno sulla carta, l'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato, che per la sua quarantanovesima Festa del Teatro (un festival dedicato da sempre alla drammaturgia di soggetto spirituale o religioso) ha fatto allestire per la prima in Italia la prima delle tre commedie di Chesterton: Magic, risalente al 1913. La traduzione, nuova, era di Saverio Simonelli, e la messa in scena è firmata da Mario Scaccia, presente anche sul palco come protagonista: anche se il suo personaggio, il Duca, è tanto ben disegnato quanto — in buona parte — estraneo all'essenza più problematica e inquietante dell'intreccio.
Alla prova del palcoscenico, tuttavia, e del gusto e degli interessi di un pubblico molto differente da quello del 1913, Magic si rivela — però — un testo disuguale, a cui non mancano momenti singolari e forti ma neanche parentesi deboli e scontate (vedi il dolciastro «happy end» amoroso francamente brutto e improponibile). Chesterton, è vero, imposta qui con lucidità e con grande energia, in maniera talmente decisa e diretta da diventare persino cruda, il tema fondamentale del «bigottismo» — così lo chiama — di coloro che assolutamente rifiutano il soprannaturale, l'esistenza di un «qualcosa dietro l'angolo», condannandosi — una volta rifiutata la fede — alla ricerca affannosa di «spiegazioni» che non troveranno mai: e, più in generale, affronta con chiarezza di idee le varie sfumatura, più o meno pacifiche, di un agnosticismo cui pare preda tutto il pensiero moderno, e che è incarnato, nelle sue forme differenti, dai personaggi.
Ma la tensione dell'intreccio e addirittura la violenza del contrasto che oppone — in prima istanza— lo Straniero, finto elfo per amore, illusionista e occultista, e il figlio del Duca, Morris, tornato dalla «positiva» America, maniacale e ostinato negatore di qualsiasi realtà sovrarazionale, non è sufficiente a compensare la frequente debolezza di struttura, è l'incerto procedere di un testo che appare a momenti fragile e poco incisivo. Colpa anche dei tagli compiuti? Non lo sappiamo. Certamente, però, non è colpa della regia, che fa il possibile, e che se la deve vedere anche con uno stuolo di attori non proprio straordinario. Scaccia regista, soprattutto, si concentra su stesso, sul suo personaggio bislacco del Duca: e non certo per egoismo, ma perché è senz'altro in quel personaggio che lo stesso autore dà il meglio, a parte alcune gustose e pungenti polemiche tra il Pastore ed il medico (positivista convinto ma non animoso).
La sola figura svanita, amabile, eccentrica del Duca — tra l'altro portatore di una stramba ma non illogica filosofìa di adesione e di sostegno imparziale a tutte le tesi, anche contrapposte — basta, a conti fatti, a impreziosire e a rendere degna di essere riproposta questa non riuscitissima commedia: tanto più nell'interpretazione magistrale, gustosa, deliziosa di Mario Scaccia, che diventa davvero uno spettacolo nello spettacolo. Tra gli altri attori, emerge Corrado Olmi (il Dottore) per le doti di mestiere che gli assicurano appropriata sensibilità, e comunicativa, e lo conducono anche a toccare qualche sfumatura raffinata. Non male lo Straniero, di temperamento, di Walter Da Pozzo, che se la casa: discontinuo il Pastore di Marco Carbonaro. Completano il gruppo Chiara Sasso (Patricia), Gabriele Tuccimei (Hastings), Raffaele Buranelli (Morris). Bella, ma senza avventure, la scena di Mario Padovan: ben realizzati, infine, i trucchi illusionistici.
FRANCESCO TEI, La Nazione 22 luglio 1995
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