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La recensione di Ettore Zocaro
 

Morte a Firenze
Come tutti gli scrittori di successo, ai quali la letteratura non basta, pure Thomas Mann si cimentò con il teatro. Ma fu per una volta sola (dopo una sconosciuta tragedia giovanile di stampo schilleriano e l'abbozzo di un dramma solila moglie di Luterò) con Fiorenza, in scena a Berlino, nel 1908, regista Max Reinhardt, e successivamente ripresa, tra Germania e Austria, per un paio di edizioni appena.
Il fatto che tale lavoro sia stato poi abbandonato, e che non sia riuscito ad arrivare mai in Italia — nonostante evochi la Firenze del tardo Quattrocento e si basi su due personaggi di quel tempo come Lorenzo de' Medici e Girolamo Savonarola — è dovuto certamente alla sua scoraggiata ampiezza, fatta di una spropositata struttura scenica e di frequenti indugi narrativi e saggistici (lo si può rilevare leggendo la traduzione nel volume mondadoriano « Novelle  e racconti »,  a cura di Lavinia Mazzucchetti).
C'è voluta molta buona volontà per andare a ripescare un testo ormai nel dimenticatoio, ma era interessante al tempo stesso ritirarlo fuori perché incuriosiva questo aspetto del grande autore de I Buddenbrook e La montagna incantata. Un tema e una intelaiatura come quelli di Fiorenza avrebbero potuto attrarre ieri un regista quale Luchino Visconti, poiché avvinto dal fasto dell'ambiente e dalla statura dei personaggi; e oggi uno come Franco Zeffirelli, al quale dovrebbero essergli congeniali certe figure di fiorentini, emanazione di una mitica epoca storica.
Ci si è messo invece, per la quarantesima « Festa del teatro » di San Miniato (dove, nella bella piazza del Duomo, scenograficamente di rara suggestione ogni estate si realizza un teatro religioso della coscienza, capace, possibilmente, di attingere a radici popolari), Aldo Trionfo, il quale, prima come riduttore, insieme a Marco Bongioanni, e poi come regista, insieme a Lorenzo Salveti, ci dà di Fiorenza un'idea scattante e concisa lontana dalle pleonastiche disgressioni dei testo originale.
I due riduttori hanno lavorato abbondantemente non solo di forbici (il ohe era comprensibile, altrimenti assai lungo: malgrado Luca Ronconi ci abbia abituato a non tener conto delle durate), ma anche di impostazione. « Altri — avvertono sul programma di sala — avrebbero potuto fare altrimenti: è risaputo che il teatro non è ripetizione di letteratura ma "si fa" sulla scena con interpretazioni sempre personali e diverse ».
Pertanto la loro lettura si allontana dal confronto tra estetica ed etica ohe Mann affronta nel rappresentare gli ultimi giorni di Lorenzo de' Medici, nel 1492, nella sua villa di Careggi, dove è ammalato, circondato da grandi spiriti della corte, artisti e letterati (tra gli altri, ci sono Angelo Poliziano e Pico della Mirandola); e la missione del domenicano Girolamo Savonarola che rivendica con le sue prediche, ritenute dalla Chiesa eretiche e srìsmatiche, i diritti spirituali della vita. Un confronto appassionante.
Da un lato, un'idea umanistica del Rinascimento, ohe  a un nordico  come  Mann risultava  particolarmente suggestiva per quel che esprimeva attraverso la civiltà del dissidio, della trasgressione alla maniera di Lutero, in opposizione al potere ecclesiastico ufficiale, a qualsiasi «predomino». In tutto questo il simbolo di Fiore, cioè Fiorenza, la bella ragazza che piace a Lorenzo, incarnazione stessa della città, del suo senso della bellezza (rivestita dal costumista Aldo Buti come la primavera del Rotticeli).
Nella versione di Trionfo e Bongioanni la scelta drammatica fa pendere la bilancia nettamente a favore di Savonarola, come se, a nome degli odierni cattolici, il desiderio era quello di un atto di riparazione nei confronti di chi venne mandato ingiustamente al rogo, prendendo appunto a pretesto il testo di Mann. La sua presenza ascetica, simile a un fantasma che si aggira nell'intero arco della rappresentazione, si sposta da un pulpito all'altro, ai lati estremi della scena centrale consistente in una bella e funzionale piattaforma, una zattera dorata che rappresenta, con un sofà-catafalco, la residenza dei Medici, (è opera di Giorgio Panni).
Man mano che i temi si sviluppano, lo spettatore viene a trovarsi di fronte a chi ha creduto al fascino della bellezza pagana e sia a chi ha insistito con foga nella severità di un messaggio cristiano  destinato a tingersi di lugubri presagi. La messinscena si muove prima lungo le strade lontane fra loro ma parallele, poi su strade sempre più vicine, dirette, fino al serrate finale.
E' un bel pezzo di teatro dello scontro in cui due attori di scuola come Arnoldo Foà e Virginio Gazzolo, rispettivamente Lorenzo e Girolamo, trovano pane per i loro denti, padroni assoluti. La guida di Trionfo, oltre che calibrarli giustamente nei loro impeti attoriali, si afferma magistrale ancora una volta nel buon uso delle parti minori, disposte con discrezione e armonia, nonostante la schematicità dell'impianto.
In questa direzione si muovono con sicurezza Sabrina Capucci (delicatissima Fiorenza), Piero Caretto (Poliziano), Edoardo Sitavo (Pico della Mirandola), Marco Maltauto (Giovanni de' Medici), Paolo Musio (Piero de' Medici), Gianfranco Candia, Carmelo Grassi, Gabriele Parrilo, Ivan Polidoro e Marco Festa. Garbate ed evocataci le note musicali scelte da Paolo Terni che sullo sfondo della dolce notte di San Miniato davano ulteriore risalto alla forza trasfiguratrice del teatro che non finisce mai di sorprenderci neppure nei suoi testi accantonati.
Ettore Zocaro La Sicilia, Catania, 15 Luglio 1986




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