TEATRO SOTTO IL SEGNO DI DIO
«Ricercare una verità che si incarna nella storia... verificare quanto nella realtà c'è ancora di cristiano»: don Ruggini, che dell'Istituto del Dramma Popolare fu splendido iniziatore, così diceva nel 1971, rilanciando le tematiche che animavano le «feste del teatro» a San Miniato. In questa XLII edizione, don Marco Bongiovanni - che da alcuni anni ha raccolto quell'eredità con mano ferma e chiarezza intellettuale - propone uno spettacolo fedele agli intenti originari. Il vento del cielo è una storia di oggi che si svolge nel 1856, all'indomani della guerra di Crimea, in un piccolo paese del Galles, sconvolto dai lutti della guerra e dalla miseria conseguente, attraverso personaggi di differenti estrazioni sociali che si muovono intorno ad una casa borghese in una quotidianità in cui viene ad insinuarsi, come un innesto misterioso, il segno del divino che imprime una svolta all'esistenza della comunità appassita e demotivata, riportandola ad un amore per la vita che solo la seconda presenza soprannaturale può spiegare. Scritto da Emlyn Williams, attore inglese di fama scomparso l'anno scorso, il dramma si inserisce in un filone naturalistico-spiritualista che ha il suo maestro in Graham Greene - rappresentato proprio a San Miniato un paio d'anni fa - e prosegue in quella linea di attualizzazione del sacro attraverso autori non «strettamente» credenti ma
proiettati alla ricerca di un destino finalizzato dell'uomo, che si sono sostituiti alle prime scelte dell'Istituto - quelle di Assassinio nella Cattedrale e de I Dialoghi delle carmelitane, Eliot e Bernanos, tanto per intenderci - fortemente caratterizzate da una tematica esplicitamente religiosa. Il testo è stato tradotto ed adattato dallo stesso padre Bongiovanni e dal regista Franco Meroni, con una attenzione accurata al linguaggio, che accenna a preziosità ottocentesche e tenta qualche differenziazione sociale (l'autore aveva usato il gallese e l'inglese per sotolineare tali differenze).
Una vedova benestante, disamorata della vita per la morte del marito e di un figlio sul nascere, tiene in casa una giovane fantesca con un ragazzino; un misterioso direttore di circo - una specie di nobiluomo in pensione - si introduce nella sua quiete volendo conoscere quel ragazzino che pare faccia prodigi, forse addirittura un nano, un essere bizzarro, che il proprietario del circo, suo padrone, vuole inserire tra i «numeri». Il colera invade il villaggio, e la situazione evolverebbe al tragico se quel ragazzino con inspiegabile intervento non facesse guarire i malati, addirittura resuscitare un morto, il fidanzato della nipote della padrona di casa, mentre il bizzarro padrone del circo converte la sua concretezza di uomo di potere in una determinazione a soccorrere e ad amare. Il villaggio risanato torna a pulsare, ma quel ragazzino si ammala e muore: ultimo riferimento, questo, ad una simbologia del Cristo adombrato nel fanciullo salvatore, a cui tutti i peccati del mondo provocano la morte, ma la cui opera si diffonde vitalmente attraverso la fede e le buone opere. Williams è autore esperto di palcoscenico, e si vale con perizia di situazioni e personaggi, anche se la sua drammaturgia è più nelle intenzioni che nella realizzazione volta al simbolismo e alla metafora: che nulla è lasciato alla intuizione dello spettatore: non c'è mistero né ambiguità, ma uno spiattellar citazioni del Vangelo, un raccontar fatti che subito si associano ai miracoli delle guarigioni, alla resurrezione di Lazzaro, fino a quel «vento del cielo» che è la morte di Gesù subito seguita dal suo innalzarsi al cielo.
Franco Meroni ha innestato nel testo edificante le sue capacità di fare spettacolo in puro senso teatrale; ben solido culturalmente, per esperienze che hanno toccato Machiavelli, Conrad, Beli, ha eluso i pericoli di un livello rischiosamente da «sceneggiato» con «Coups de theatre» messi a segno al momento opportuno, dall'iniziale apparir silenzioso della «Madre e del fanciullo» sulla scala, ai gruppi marmorei alla «Rodin» con immagini improvvise nella descrizione del colera, e lo scenografo Stefano Pace gli ha offerto ampio appiglio, ravvivando una scenografia per la verità più adatta, nel suo realismo borghese, al chiuso di una sala. Neroni ha condotto con fermezza per mano i suoi attori, mantenendo vivaci i ritmi recitativi: Arnoldo Foà, smaliziatissimo direttore, assai a suo agio in una parte che pare scritta per lui, di astuzie, mezze parole e ironici sguardi; Angela Cardile una madonna senza tempo, da sacra rappresentazione e da moderno quartiere degradato, luminosissima; Aldo Reggiani, che ha animato dei suoi estri di eterno folletto il proprietario di circo che diventerà un nuovo San Pietro; Nunzia Greco nella trattenuta giovinezza della vedova poi vivificata dalla fede; Alessandra Celi, la nipote, Luciano Fino, che è un pò un «coro» e rappresenta la semplice gente del paese, Paola Bacchetti, che ha il compito scabroso di fare una signora di Birmingham dalla raffinata pronuncia, fino a Mattia Comenotto, che è il silenzioso ragazzino che alla fine resuscita, radioso di luce mentre le pareti della casa si scostano per aprirsi dietro di lui nell'ampiezza sconfinata del mondo. Pertinenti le musiche, di Luciano Bettarini, a cui va anche il compito di scandire le scene, in una. successione di taglio cinematografico. Successo quindi, anche se auspichiamo a San Miniato una più incisiva capacità di sollecitazione ad una drammaturgia contemporanea e nostra, nelle tematiche e nel linguaggio.
MARICLA BOGGIO, L'Avanti 19 luglio 1988
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