La recensione
MacLeish: il fascino delle cose vive
È un fatto che ormai la nostra penna di cronisti teatrali si scalda solo se sono in ballo i massimi problemi. Lo riconosceva giorni fa un eminente collega: i fatti privati non interessano più nessuno. Si ha un bel distinguere a tavolino tra idea ed espressione, concetto e forma. Al dunque, cioè di fronte al fatto concreto della rappresentazione, le squisite variazioni psicologiche del signor X ci lasciano indifferenti se non implicano, alla terza battuta, una risposta ai nostri più urgenti interrogativi.
In questo senso l'esperienza di Archibald MacLeish, di cui si rappresenta a San Miniato il curioso dramma "J. B.", è davvero esemplare: nato negli Stati Uniti 67 anni fa, combattente in Francia durante la prima guerra mondiale, trasferitosi di nuovo in Francia nel '23 con la grande migrazione letteraria americana, autore di notevoli volumi di poesia, nel '39 fu nominato da Roosevelt bibliotecario della Libreria del Congresso: fece parte con R. E. Sherwood ed Ehmer Davis del gruppo di scrittori incaricati della revisione letteraria, e talvolta della stesura formale dei discorsi del Presidente. Durante la seconda guerra mondiale ebbe compiti di responsabilità nella propaganda. MacLeish è insomma ciò che si dice uno scrittore «impegnato» come lo fu, più o meno in America, la generazione fra il '30 e il '40 e come continua ad esserlo, a tutt'oggi, per lo meno gran parte della letteratura drammatica. E di codesto impegno è testimonianza polemica un pamphlet: "Gli irresponsabili", contro i letterati cosiddetti puri. La sua coerenza nel sostenere il dovere dello scrittore all'impegno totale, trova una significativa conferma nella sua difesa del nemico politico Ezra Pound.
Sono noti i pericoli di simili posizioni estreme: esse rischiano di coinvolgere lo scrittore in querele di politica meramente pratica e contingente, in beghe di partito, limitandone l'autonomia e la responsabilità. Molti scrittori italiani
del dopoguerra hanno sperimentato tale scomoda posizione. Non meno grave è tuttavia il pericolo di rifiutare ogni aperta dichiarazione di fede e di ideali, col pretesto di una ipotetica purezza poetica: si rischia di svuotare l'opera dello scrittore del suo originario movente. È dalla considerazione di questi due opposti pericoli che MacLeish, cimentandosi per la prima volta con il teatro, ha scritto un dramma in versi, "J. B.", dove cerca di contemplare dall'alto la condizione umana e di dare una risposta alle sue angosciose contraddizioni.
"J. B." è un dramma teologico in chiave fantastica: l'autore immagina che due vecchi attori, Zuss e Nickles, ridottisi a vendere palloncini e pop-corn in un circo equestre, si attribuiscano rispettivamente le parti di Dio e di Satana, per contendere ancora una volta sulla incredibile pazienza di Giobbe. Nella penombra del circo vuoto, tra le antenne che sostengono i trapezi, viene evocato il Giobbe moderno, non troppo dissimile dall'antico: costui è J. B., banchiere, una dolce moglie, cinque figli. J. B. è la personificazione dell'ottimismo all'ombra della fede. Nickles (Satana) ha buon gioco nel dimostrare che il buon accordo di J.B. con Dio è frutto della sua prospera e felice condizione. Per dimostrare che J. B. loderà comunque il Signore, Zuss (Dio) comincia a colpirlo.
Uno a uno gli sono strappati i figli: guerra, incidenti, violenze. Sara, la moglie, si mostra sempre più ribelle alla idea che J. B. continui ad amare, rassegnato, un Dio che opera il male. Ma J. B. è fermo nella sua fede: Iddio dà, Iddio toglie. Colpito nelle sostanze, J. B. non si piega; colpito finalmente nel suo corpo, tra spasimi atroci, J. B. comincia a domandare «perché» Dio sia così crudele con lui: quale segreta colpa egli abbia commesso per attirare su di sé una così irata vendetta.
Sara non regge a tanto strazio. Lo abbandona. Subentrano tre presunti «consolatori», la scienza, il comunismo, il
clericalismo, ciascuno con un suo concetto della colpa. E la controversia giuridica (colpa e castigo) tra l'uomo e Dio minaccia, come tutti i falsi problemi, di trascinarsi all'infinito, se ad un tratto la voce dell'Eterno non rammentasse a Giobbe di essere al di fuori di ogni umano giudizio, di rappresentare il limite oltre il quale la ragione si perde. Spezzato così il vecchio vincolo giudiziario tra l'uomo e Dio, J. B. si sente risanato; Dio non è colui che punisce o che opera il male, ma il miracolo della vita che, nonostante tutto, continua.
La vecchia teologia (Zuss) e la ragione (Nickles) sono impotenti a rompere il cerchio dell'uomo prigioniero di se stesso; solo l'amore, che proiettandolo fuori di sé, lo spinge a partecipare al dolore invece di chiedersene la ragione, arricchendo così la propria esperienza dell'altrui, indica l'unica strada concreta verso l'esperienza assoluta: Dio. Ed ora che J. B. ha compreso, Sara ritorna.
Questo in sostanza il messaggio di MacLeish: rifiuto della vecchia teologia giudiziaria, rifiuto dello sterile razionalismo, rifiuto dei luoghi e dei concetti in nome di sentimenti, spinte e direzioni spirituali.
Il fatto curioso è che quest'opera non sempre limpida di un poeta che per la prima volta si accosta al teatro con ingenuità e con aridi schematismi (le esemplificazioni delle disgrazie di Giobbe); quest'opera in cui ribollono (accanto all'ispirazione autentica dei due clowns), frammenti di esistenzialismo, echi di Eliot, di Thornton Wilder e di Maxwell Anderson, esercita un'affascinante suggestione teatrale: proprio perché ha il coraggio di toccare, senza infingimenti né falsi pudori, cose che ci riguardano da vicino.
La censura ecclesiastica e quella ministeriale hanno avuto il merito di non manomettere nemmeno in parte quest'opera libera e vitale, che Paola Ojetti ha tradotto in schietta ed efficace prosa italiana; e che Luigi Squarzina ha messo in scena con un impegno di una qualità non dissimile da quello che ha ispirato l'autore. Il risultato è pertanto dei più aperti e stimolanti, corroborato da una suggestiva intuizione della scena da parte del Polidori, da una distribuzione esatta ed equilibrata, da un preciso e struggente impiego delle musiche di Franco Mannino, e da soluzioni registiche che riscattano come vere invenzioni quel minimo di qualunquismo che è come il marchio di fabbrica di un'opera americana.
Eccellente la coppia dei due clowns: oppurtunamente declamatorio il Feliciani (Zuss), puntiglioso e raziocinante il Parenti (Nickles). Vittorio Sanipoli ha dato alla figura di Giobbe, che ogni esercizio di bravura avrebbe certamente mortificato, un quasi astratto grigiore, uno stupore un po' torpido, senza emozioni profonde, ma forse per questo più attendibile; Olga Villi ha fatto di Sara uno di quei suoi personaggi nitidi, dalle linee ben disegnate, riservati, nei quali un gesto di rivolta, anche fuggitivo, assume per questo uno spiccato rilievo. Egualmente equilibrati i gruppi corali: quello dei messaggeri, cioè dei nunzi di sventure, con Zora Piazza, Corrado Pani, Luca Ronconi; quello delle donne della città (l'incomprensione che circonda il dolore), con Fina Gei, Lauretta Torchio, Vittoria di Silverio, Annalia D'Alessio, Alida Cappellini); quello dei consolatori, con Mario Scaccia, Ignazio Bosic, Paolo Giuranna.
Nell'impossibiltà di esaminare i bravi attori uno ad uno, diremo che essi hanno collaborato tutti, con misura ed intelligenza, alla concertazione del testo, riuscendo a rendere polifonica un'opera che rischia l'omofonia. Nella raccolta quiete di San Miniato, l'opera ha riscosso un' attenzione sentita ed a più riprese commentata da applausi.
GIORGIO PROSPERI II Tempo, Roma, 22 Agosto 1958
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