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L'Espresso - La recensione di Rita Cirio
 

Tante citazioni per nulla
Tempo di Giubileo, tempo di indulgenze. Erano, le indulgenze, le sponsorizzazioni di una volta: un peccatore per esempio contribuiva all'edificazione di una chiesa e in cambio otteneva sconti e accorciamenti sulle pene del purgatorio per sé e familiari, come oggi ci sarebbero sgravi fiscali. L'istituto delle indulgenze arrivò a un punto di rottura ai tempi di papa Leone X che nel 1515 ne offrì a piene mani a chi avesse fatto donazioni per la costruzione della Basilica di San Pietro. L'affare prese proporzioni colossali con appalti e subappalti e tangentì - come nel caso dell'arcivescovo Alberto di Hohenzollern incaricato per la Germania - che arrivarono a metà del ricavato. La cosa non piacque affatto, come ognun sa, a Martin Lutero, con tutto quel che ne seguirà, dal Protestantesimo agli splendori della pittura controriformista.
Questi pensieri mi erano suggeriti da una serata al cristianissimo festival di San Miniato, in tante occasioni meritevole nel ricercare nel teatro una dignità spirituale e un afflato religioso non necessariamente confessionale. Mi chiedevo a quanti anni di indulgenza avrei avuto diritto dopo aver assistito a Cavaliere di Ventura di Roberto Cavosi. E confidando - ahimè - di non aver troppo peccato finora, di poter andare in credito, come con l'Iva e dunque progettare per un futuro prossimo qualche bel peccato consistente. Molto ha peccato invece l'autore Cavosi: di orgoglio drammaturgico, di presunzione, di avidità, di maiuscole in eccesso, di simboli, di simonia poetica, di Shakespeare nominato invano. E a proposito di Shakespeare sarebbe bene lasciarlo in pace nell'Empireo dove sicuramente sta ed evitare di appoggiarsi come saprofiti a Lui per poi conseguire risultati così scoraggiartti.
Il Cavosi, comunque, non si è fatto mancare nulla, dai riferimenti a "Il Cavaliere, La Morte, Il Diavolo" di Dürer trasferiti come personaggi dall'incisione al suo testo, a qualche aggiornamento beckettiano e naturalmente all'Amleto. Fortebraccio è promosso a protagonista e vestito in completo bianco come reduce da un Checov, un avanzamento di carriera lo conquistano anche i due becchini (scopiazzati malamente da Rosencrantz e Guildenstern di Stoppard) ma come quelli che vogliono apparire più di quel che sono ostentano un'incredibile parlata che vorrebbe essere forbita ed è piena dì strafalcioni. Clamorosamente declassato è invece Amleto, scolasticamente chiamato Principe del Dubbio, Ofelia ridotta a un Ricordo ma almeno danzato da par suo da Carla Fracci. Di provenienza più dubbia l'Agrimensore (da Kafka?) e la Fontana (da Bergman?).
In questa selva oscura di simboli, di maiuscole, di citazioni, di intenzioni, ardua da disboscare anche per uno spettatore di mestiere, è facile anzi inevitabile perdersi e perdere il senso, rassegnati fino alla fine, facendo un fioretto a San Miniato. A nulla vale che la compagnia sia di prim'ordine, Virginio Gazzolo (Fortebraccio), Angela Cardile (La Morte), Maximilian Nisi (un guizzante Diavolo che indossa tra l'altro il costume più inventato, con inserti di cuoio rosso e per copricapo un asimmetrico corno satiresco), oltre, ovviamente, alla presenza comunque carismatica di Carla Fracci (Il Ricordo), il tutto diretto da Beppe Menegatti e coreografato da Luc Bouy. Suggerirei di aggiungere in fondo al borderò, dopo gli incassi, i giorni di indulgenza concessi agli spettatori in cambio della visione di questo penitenziale Cavaliere di Ventura.
RITA CIRIO, L'Espresso, 2 settembre 1999




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