Due uomini in lotta: ma chi vince?
Non è detto che un teatro di ispirazione religiosa debba avere propositi didascalici, intenti edificanti, scopi pedagogici. L'arte non è catechesi: è linguaggio che comunica la complessità del reale, la pluralità delle sue forme, le tensioni dell'uomo che generano dubbiose domande, spingono alla ricerca incessante, di tanto in tanto sembrano spengersi e inaridirsi nella passiva accettazione del dato, per poi riprendere forza e vigore, e riproporsi come interrogativi appassionati e inquietatiti. Ma questa rappresentazione dell'uomo come nodo di domande che il fatto stesso di esistere e di voler essere variamente suscita non può esaurirsi nella laica, sofferta riflessione sui buchi neri del destino individuale e cosmico: ogni intellettuale déraciné noti avrà difficoltà, da questo punto di vista, a percorrere tutti i toni dell'ambiguità, del delirio e dell'allucinazione: o a trascorrere, con abile mano, su una tavolozza che contiene tutte le sfumature del grigio e del nero, e dell'abbagliante arancione e del funereo viola. Nell'artista cristiano — ma possiamo tranquillamente conservare il più innocuo qualificativo «religioso» — l'attività dello spirito che crea, evoca, riflette e assegna all'uomo attore il compito di riempire di umori palpitanti gli scenari disegnati sulla carta è chiamata, però, a un compito: non un programma né uno schema né una norma restrittiva e vincolante, è vero... ma un compito che sia la cifra tangibile di una professione di fede e di una testimonianza. Non si trasforma l'arte in oratorio celebrativo — pensiamo a Eliot, a Bemanos, a Greene, a Claudel, a Maulnier, a Fabbri, a Silone, per fare i nomi di alcuni degli autori rappresentati nel corso di quarant'anni nella suggestiva cornice della Festa del teatro a San Miniato — se la tensione conoscitiva diventa intenzione morale e questa, cristianamente, persuasione che vuole comunicare, suscitando potenti impressioni estetiche.
Se in un teatro di ispirazione religiosa l'idea della sintesi tra bellezza e verità è vista come gioco di prospettive dialettiche, piuttosto che come motivo di fondazione della storia rinnovata dal Vangelo, tutto, ci sembra, finisce col ridursi all'ennesima riproposta del conflitto tra carne e spirito, dello scontro tra norma e trasgressione, dell'antagonismo tra le necessità del reale e gli imperativi della coscienza. Il che, sia ben chiaro, è tutt'altro che contestabile, laddove l'uomo dilemmatico, l'ulisside di tante avventure del pensiero — intellettualistiche, fascinose, fumose, suggestive — ci offra la sua storia come misura emblematica di riqualificazione, occasione per ripensare, religiosamente, un percorso, un approdo o un non approdo. Tutto assume connotati diversi se la conoscenza religiosa — che il linguaggio dell'estetica potenzia: si leggano gli scritti del Guardini e del Von Balthasar — sbiadisce in un generico umanitarismo o in un'etica della tolleranza, o — e chiediamo perdono per l'ardita figura — in un'estetica del punto interrogativo. Questo sì, programmatico. Ecco, dalla quarantesima Festa del teatro sanminiatese, usciamo con queste perplessità. Di chi la colpa? Del dramma di Thomas Mann Fiorenza, messo in scena quest'anno? Della riduzione e dell' adattamento di Marco Bongioanni, presidente dell'Istituto del dramma popolare, e di Aldo Trionfo, regista della compagnia Osi (Organizzazione spettacoli internazionali)? Dell'interpretazione di attori collaudati come Arnoldo Foà e Virginio Gazzolo e di una esordiente indubbiamente brava e aderente alla parte come Sabrina Cappucci? È difficile dirlo: e lo stesso termine colpa ha un suono sinistro, qui fuori luogo, o, per lo meno, sproporzionato.
Ma vediamo un po' la genesi di Fiorenza, come la racconta Lavinia Mazzucchetti in Thomas Mann, novelle e racconti (Mondadori): «Fiorenza uscì nella Neue Rundschau nel 1905, un anno dopo in volume, presso S. Fischer. Solo in ritardo, e raramente, fu portata sulle scene: a Monaco dal Neuer Verein nel 1908, a Berlino da Keinhardt nel 1913 e a Vienna nel 1918 dalla Dramatische Gesellschaft, con tentativo di attualizzarla. Il dramma in prosa giungeva un paio d'anni dopo il volume di novelle Tristano in cui figurava l'essenziale Tonio Kroger, dove si poteva leggere anche il racconto Gladius Dei, primo germe di Fiorenza. Questa arrivava dunque a un pubblico orinai conquistato dalla rivelazione dei Buddenbrook e dopo quei racconti che fecero di Thomas Mann il narratore più apprezzato dell' aristocrazia intellettuale delle nuove generazioni. Fiorenza fu piuttosto fraintesa che acclamata». Perché questo malinteso? E innanzitutto chi è Fiorenza? Di armoniosa bellezza botticelliana, tenera e delicata divinità danzante, figlia rinascimentale del culto della bellezza come virtù palese. Fiorenza è l'emblematica fanciulla cui Lorenzo il Magnifico ha consacrato tutta la sua esistenza: è la città di Firenze, l'amante che ha corrisposto all'amore del suo principe, a un tempo guerriero e poeta, e che ora — i tempi della vicenda sotto quelli del pomeriggio dell'8 aprile 1492: il luogo è la villa medicea di Careggi presso Firenze — vede morire il suo signore e crollare con lui l'Idea platonica trasformata in forma, sotto i duri colpi di Gerolamo Savonarola, monaco fustigatore di corrotti costumi, profeta di sventure e di purificazioni attraverso il fuoco, banditore di un nuovo regno di Cristo ove sarà restaurata la vera pace. Il dramma è giocato sullo scontro concitato e veemente — dopo un tentativo di captatio benevolentiae da parte di Lorenzo — tra un Principe che sta per soccombere, ma ancora si attacca con tutte le sue forze alla Fiorenza dei suoi sogni e rivendica, pur pentito degli errori commessi, l'eccellenza del suo disegno; e un uomo di Dio, già in qualche modo aureolato dal fuoco del rogo (sarà impiccato in piazza della Signoria e poi bruciato come eretico e scismatico il 23 maggio 1498), che lo incalza, opponendogli altri valori, altra idea dello Spinto, altro culto della bellezza, altra vocazione comunitaria. Sullo sfondo, Fiorenza, meravigliosa, eterea, donna-angelo e femmina, immagine del desiderio, concreta e simbolica nei suoi movimenti aggraziati e seducenti, e con lei la raffinata corte intellettuale di Lorenzo, Pico della Mirandola, Angiolo Poliziano, luigi Pulci, Marsilio Ficino, e gli eredi del Magnifico, Giovanni e Piero, Una lotta in nome di un diverso modo, di diverse ragioni per chiedere ed esercitare il potere: da una parte Lorenzo, dall'altra Gerolamo. Nel testo manniano, i due uomini che si scontrano sono individualità titaniche, assolute: l'angoscia di Lorenzo che muore e chiede al frate «le condizioni della grazia» non impedisce che il dominatore abbia reazioni violente allorché scorge in Gerolamo una precisa volontà di potenza; la febbrile santità del frate non nasconde l'ebbrezza di chi vuole Fiorenza «libera per il Re che morì sulla Croce», ma adopera frasi che sembrano strappate allo Zarathustra, per mettere in evidenza il pathos dell'adesione popolare al capo carismatico: «Ammirano. Venerano. Guarda come accorrono verso un Io energico. I molti, che sono soltanto un noi... a servirlo e a compiacerlo».
Due uomini in lotta, ma chi vince? E Mann crede che uno dei due debba vincere? Marco Bongioanni, nel quaderno Fiorenza, pubblicato a cura dell'Istituto del dramma popolare di San Miniato, ha scritto: «l'antitesi rinascimentale espressa qui dal contrasto fra Lorenzo e Girolamo è da vedere a tempi lunghi più come travaglio dialettico verso un incontro e una sintesi (discordantia concors) che non come una divergenza di poli antitetici... ormai è fuori da ogni ragionevole dubbio che fra' Girolamo visse il Vangelo in autenticità di dottrina e in comunione ecclesiale, al di là delle apparenze e sia pure in maniera appassionata e profetica È fuori di dubbio che della profanità medicea e rinascimentale non si può fare un fascio per l'inferno poiché sono sacrosanti anche i valori terreni. Dunque sintesi. E sintesi "cristiana". Ma resta il fatto che le due figure si sono prestate a rappresentare "artisticamente" il rifiuto l'uria dell'altra. Ovviamente, Thomas Mann adotta il criterio del poeta. Il drammaturgo non fa esegesi né critica storica, fa teatro e arte, comunica e diletta per spettacolo. Approfondire ora che cosa sia "teatro storico" ci porterebbe lontano.
Forse giova ricordare che Mann scrive e propone Fiorenza nel contesto culturale nordico e germanico, luterano fra l'altro, di spiccata tendenza soggettivistica e molto più sensibile all'astrazione e al simbolo di quanto non sia la cultura mediterranea italiana. Perciò è più facile a Mann accentuare — oltre la Storia — l'intolleranza savonaroliana contro la paganità della corte medicea. In quest'ottica Mann staglia fra' Girolamo come il suo eroe, e le dichiara a tutto tondo. Ma se Lorenzo giace ormai fatiscente su un letto di morte, anche l'eroe Girolamo si profila già lambito dalle fiamme del rogo. L'uno e l'altro integralismo — sembra suggerire Mann — sono condannati all'estinzione. Nascerà dalle ceneri, oltre il finale del dramma, un umanesimo nuovo, dove l'incontro tra materia e spirito, tra caduco ed eterno, tra profano e santo, è destinato a fare una diversa e più credibile Storia».
Sono osservazioni interessanti, ma in qualche modo interessate a rivendicare la possibilità (meglio, l'opportunità) di un incontro in termini dialettici tra realtà antagonistiche. La lettura di Bongioanni ci sembra ispirata dalla logica del dialogo: ma il dialogo presuppone neutralità; ora, la neutralità nasce dal fatto che Lorenzo e Gerolamo hanno ragione tutti e due e quindi la loro contesa può risolversi in una superiore armonia di valori, o dal fatto che l'uno e l'altro — il dominatore morente e colui che
sta per strappargli, per breve tempo, lo scettro — sono figli di una medesima volontà di potenza che cerca di legittimarsi con opposte mistificazioni (la bellezza, la santità)? E neppure Mann risponde, quando, replicando ad alcuni critici, scrive: «Si è creduto che in Fiorenza io abbia soltanto esaltato il Rinascimento italiano. Il che è errore. Io sono dalla prima all'ultima parola un critico del Rinascimento. Naturalmente però uno di quei critici che accolgono in sé completamente il fenomeno da giudicare, tutto lo comprendono, e sanno parlare il suo linguaggio. Il fatto che in questi dialoghi, che parlarli la lingua del Rinascimento, questi venga criticato e non esaltato incondizionatamente risulta se noi altro dal non essere il vero protagonista Lorenzo de' Medici, bensì il suo avversario, il monaco Girolamo Savonarola. Benché infatti il terribile cristiano, come lo definisce Lorenzo, scenda a calcare la scena soltanto alla fine del dramma egli è spiritualmente presente sul palcoscenico fin dalla prima parola. Da lui io partii, alla sua vita andò la massima parte dei miei studi preparatori, al suo carattere la mia più profonda partecipazione psicologica. Il suo destino fu il motivo che in realtà mi entusiasmò. Se nei suoi confronti Lorenzo appare notevole, amabile, a tratti anche superiore, ciò è dovuto soltanto a licenza poetica cui nulla è più lontano della tendenziosità preconcetta...».
E a proposito di frate Gerolamo: «Forse per nessuno in Italia il Cristianesimo era a quel tempo esperienza vìssuta, volontà, visione del mondo, passione, per nessuno fuorché per quell'unico monaco, per l'eroe del mio dramma, che in realtà fu uno dei cristiani più appassionati e radicali di ogni tempo. In lui, nel santo di San Marco, il Cristianesimo giunse a potente e personale testimonianza. Ed è questo eroico evento l'oggetto del mio lavoro».
Ma eroiche — di diverso segno, per diverse ragioni — sono anche la statura e l'azione di Lorenzo. E allora le perplessità a cui avevo fatto cenno nascono dalla indecifrabilità, per me almeno, del messaggio di questo dramma. Indecifrabilità, ben s'intende, dal punto di vista religioso, se in questo termine sono comprese cifre risolutive, o almeno indicazioni, che cercano di attraversare e di illuminare la rappresentazione dilemmatica del dramma dell'io e dell'Altro. Quello che qui è reso ancora più ambiguo da registri recitativi che caratterizzano il Lorenzo di Foà in positivo (benevolo, tollerante, aperto, disponibile, pronto al pentimento, innamorato della vita e delle sue bellezze, ma tutt'altro che avverso allo Spirito) e il Gerolamo di Virginio Gazzalo in negativo (astioso, strisciante, maligno, impietoso, tetramente egocentrico e assetato di una gloria che pare dover compensare antiche frustrazioni piuttosto che essere visibile impronta di una divinità trionfante nella verità e nella pace).
MARIO BERNARDI GUARDI, Il Messaggero 14 luglio 1986
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