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L'Osservatore Romano - La recensione di Andrea Fagioli
 

Grandezza e miseria dell'uomo nella lotta tra il Bene e il Male
Trovare Dio e poi perderlo. Non saperlo riconoscere, ma trovarlo. Potrebbe essere la solita lotta tra il Bene e il Male, se non fosse che il Male, in questo caso, prevale e prevarica quasi tutti i personaggi usciti dalla penna di Julien Green durante la stesura, nel 1954, del dramma Il nemico, ambientato nel 1785, alle soglie della rivoluzione, in un paese della Francia dove vivono, quasi come dei prigionieri, quattro tormentati personaggi: Philippe, Signore di Silleranges e la moglie Elisabeth, combattuta tra il dovere della fedeltà allo sposo e la tentazione del tradimento con i due cognati, Jacques e Pierre.
I quattro personaggi giocano una drammatica partita nelle oscure e fredde sale di un castello dove il Male sembra aggirarsi inesorabile, rendendoli spesso come marionette mosse dai fili della passione.
«Sprofondando nell'oscurità, ho la sensazione — racconta Elisabeth a Pierre — che il Nemico sìa lì e m'impedisce d'essere completamente felice con voi... Il Nemico non è un fantasma, e neanche un uomo. È qualcuno... Il Nemico cerca di separarci...».
«No — ribatte Pierre — : cerca al contrario di unirci, perché io so di chi parlate e ho provato anch'io il sentimento della sua presenza. Ora, noi siamo qui per volontà sua, e a lui piace che ci amiamo... Fin dai primi istanti, vi amavo così follemente da offrire la mia vita in cambio del vostro amore... Nel mio cuore ho rivolto un appello al vecchio alleato di tutti i disperati, e del tempo che mi resta da passare sulla terra ne ho fatto sacrificio, Elisabeth, perché mi foste data... Volete sapere il suo nome? Da sempre gli hanno dato i più magnifici: il Principe di questo mondo, l'Avversario, il grande Ribelle. Perché non il Nemico, come quello che vi sta accanto ed è forse soltanto la stessa persona vista da occhi diversi?».
Nel turbinio di passioni, Jacques assolderà un sicario per uccidere il fratellastro Pierre, mentre Philippe, una volta consumato il delitto, inviterà ipocritamente il fratello minore Jacques a riprendere, di fatto, la vita quotidiana come se nulla fosse accaduto.
Solo Elisabeth saprà trovare la via del  riscatto: lei che sin dall'inizio si chiedeva «come può tutto questo essere insieme così vero e così falso? Chi ha ragione in questa storia?»; lei a cui non era chiaro se in quella presenza avesse individuato la voce della coscienza (il Bene) o davvero il Nemico (il Male); lei che aveva fatto la Prima Comunione «senza saper bene che fosse»; lei a cui la fede cristiana sembrava «un prodigioso accumulo d'idee false» e che «faceva le sue Pasque ogni anno in condizioni certo sacrileghe perché costretta»; lei che senza riconoscerlo aveva già incontrato Dio e ora lo ritrova. Al contrario di Pierre, ex monaco, che, dopo averLo trovato, ha «rinnegato tutto in un minuto».
Il Male, sembra dire l'autore, è ovunque, può nascondersi anche dietro l'innocenza, ma all'anima che non vuole perdersi resta il cammino dell'espiazione.
Il nemico, nella traduzione dì Roberto Buffagni, è il testo scelto per la sessantunesima Festa del teatro, promossa a San Miniato dall'Istituto del dramma popolare, e portato in scena, dal 20 al 25 luglio, sulla Piazza del Duomo dal giovane regista Carmelo Rifici con due grandi interpreti come Elisabetta Pozzi (Elisabeth) e Tommaso Ragno (Pierre) accompagnati dagli altrettanto bravi Marco Balbi (Philippe) e Alessio Romano (Jacques). Con loro Tindaro Granata, Agostino Riola, Carlotta Viscovo e Noemi Condorellì.
Quello dello scrittore francese Julien Green (Parigi 1900-1998) è un «teatro dell'anima», «dove l'invisibile e il misterioso — spiega il regista — si sovrappongono alla realtà quotidiana. La soprannaturalità degli eventi, avvertita dai personaggi come un'incognita terribile e misteriosa, finisce per modificarli, farli perdere per cammini oscuri e bufere infernali», dalle quali, come detto, solo Elisabeth sembra salvarsi, mentre Jacques e Pierre si rimpallano a vicenda se sia «necessario aprire una porta per far entrare il demonio», oppure se sia «necessario aprire una porta e varcare la soglia di una chiesa per trovare Dio». Domande che, però, «tutti gli uomini prima o poi si pongono, anche se alcuni — spiega Salvatore Ciulla, direttore artistico del Dramma popolare — sostituiscono il demonio con il male, il dolore, la malattia, la morte e Dio con la gioia, la felicità, la realizzazione piena».
«L'uomo — ricorda Monsignor Carlo Ciattini, consigliere del Dramma popolare, citando le parole del Papa ad Assisi — è davvero grandezza e miseria: è grandezza perché porta in sé l'immagine di Dio ed è oggetto del suo amore; è miseria perché può fare cattivo uso della libertà che è il suo grande privilegio, finendo per mettersi contro il suo Creatore. È la grande notte, come la definisce Green. È la vertigine di quell'abisso che si pone tra gli slanci verso ciò che è buono e giusto e santo, e l'essere attratti nell'orbita gravitazionale delle passioni, della sensualità, o quantomeno dell'inerzia accidiosa e contenta di sé».
Nella messa in scena sanminiatese, a 60 anni da quell'estate del 1947 in cui il Teatro dello Spirito debuttò nella storica piazza della cittadina in provincia di Pisa, il regista Rifici, sostenuto anche dalla bella scena di Daniele Spisa, ha puntato molto sulla recitazione degli attori, coadiuvati una volta tanto da un ottimo impianto microfonico che ha reso particolarmente suggestive le voci (prima fra tutte quella di Tommaso Ragno), ma anche sui movimenti scenici corali, a tratti coreografici, punteggiati dalle musiche di Daniele D'Angelo. Funzionali i costumi di Margherita Baldoni: settecenteschi all'inizio, novecenteschi alla fine per una sorta di universalizzazione storica, ma soprattutto tematica, per una questione, la lotta tra il Bene e il Male, che non abbandonerà l'uomo fino alla fine dei tempi.

ANDREA FAGIOLI, L'Osservatore Romano 23-24 luglio 2007




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