La recensione
Una visione metafisica, non un'omertà politica
L'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato per la sua annuale Festa del teatro — l'undicesima, risalendo la prima al 1947 — ha messo in scena "L'ótage" di Paul Claudel affidandone la direzione a Mario Ferrero che ha allestito lo spettacolo all'interno della monumentale chiesa di San Francesco.
L'ostaggio è un Papa, Pio VII, che un nobile della Marna, Georges Coùfontaine, ha rapito con uno stratagemma ai gendarmi di Napoleone impegnato nella campagna di Russia, ed ora ha condotto nell'Abbazia dei cistercensi di Coùfontaine, dove Sygne, sua cugina, si è ritirata.
Coùfontaine vuole che il Papa si dichiari per il re e che condanni il nuovo ordine democratico sorto dalla Rivoluzione. La causa del re e la missione della Chiesa sono tutt'uno per lui, così come per lui si identificano l'ordine della natura creata e l'ordine in cui la nobiltà aveva uno stato particolare nel quadro della società. Gli avvenimenti recenti, il fatto che il Papa abbia incoronato Napoleone imperatore specialmente, hanno turbato Coùfontaine. È tempo che Dio si pronunci chiaramente: con noi o contro di noi? Una domanda che anche gli altri, i rivoluzionari hanno posto ripetutamente al Pontefice e per la quale il Vicario dell'eterno non può aver risposta, così come non l'ebbe Gesù quando i dottori della legge lo interrogavano con malizia.
Il « nuovo ordine » nel dramma è rappresentato da Touissant Turelure, rivoluzionario della prima ora ed attualmente prefetto della Marna, per il quale l'antico regime fu non « natura » come per Coùfontaine, ma tutto « caso », arbitrio. E come la giustizia feudale di Coùfontaine rivela tratti dì orgoglio e scade facilmente nell'oppressione, così la giustizia rivoluzionaria di Turelure mostra tra le sue componenti bassi istinti carnali e si è determinata, col passar degli anni, in ricerca di tornaconto personale. Tutto questo ce lo rivelano due scene fondamentali dei primi due atti del dramma, quella del lungo dialogo notturno tra il Papa e Coùfontaine, nel primo atto, e quella, all'inizio del secondo, tra Sygne e Turelure; il quale, informato dalle sue spie della presenza all'Abbazia dell'espatriato Coùfontaine e del Papa, viene a chiedere all'aristocratica fanciulla di sporsarlo in cambio della salvezza dei suoi due preziosi ospiti.
Sygne e Georges, nella notte che precede la visita di Turelure, si son scambiati la promessa d'unire indissolubilmente le loro vite col vincolo matrimoniale ed ora Sygne, che si è confidata al suo confessore, il curato Badilon, pur senza alcun obbligo di coscienza, si vede da questi prospettare l'accettazione della proposta che l'inorridisce non solamente come mezzo di salvezza per il Papa e il suo amato, ma come strumento di suprema unione con il sacrificio di Cristo. Chi mi vuole seguire, rinneghi se stesso... E Sygne, dopo aver vanamente tentato di far prevalere in sé le voci dell'umana fragilità, si dispone al matrimonio che essa contempla inorridita nel suo pieno valore di Sacramento, come una giovane cristiana dei primi secoli agli obbrobri del martirio in un circo pagano.
Passa del tempo, Sygne è a Parigi assediata dalle truppe alleate, dove Turelure è diventato nel frattempo prefetto della Senna. Quel giorno in cui si festeggia il battesimo del figlio nato dalla loro unione, Turelure, ormai disposto a tradire Napoleone, per mezzo di Sygne fa sapere a Georges, messaggero del re, che consegnerà senz'altro Parigi se Coùfontaine cederà il suo nome e i diritti annessi al neonato.
Nell'incontro con Georges, che la disprezza, Sygne consuma l'ultima goccia dell'amaro calice della sua fede matrimoniale. Georges, stanco, disperato, rinunzia a tutto, anche perché ormai sa che la restaurazione non ridarà al sovrano i diritti antichi nei quali egli ravvisa tuttora l'immagine dell'ordine divino; ma d'un tratto, cava la pistola e spara contro Turelure. Sygne s'è gettata dinnanzi al marito e cade colpita a morte. Turelure spara a Coùfontaine e l'uccide. Il curato Badilon accorre. Il calvario di Sygne è finito. Ma ecco che, dopo aver intuito nella speranza e nella carità che Georges, morto senza assoluzione, è misticamente unito al suo sacrificio nella misericordia di Dio, Sygne è travagliata da un estremo conflitto tra Grazia e natura, per cui le sue ultime parole — simbolo della natura umana — non esprimono il perdono per Turelure, e solamente un silenzioso gesto da testimonianza della sua volontà di conformarsi fino in fondo alla volontà di Cristo: le braccia di Sygne si uniscono infatti a formare una croce, segno della redenzione e, insieme, allusione all'emblema dei Coùfontaine — due mani unite. Fede eterna e fede terrena che per mezzo del sacrificio sono divenute una cosa sola.
La vicenda avrà manifestato al lettore la grandezza spirituale del tema, ma non è detto che di per sé sia capace di allontanare dalla mente di chi sia prevenuto quella immagine di astratta ufficialità che molti, generalizzando, hanno attribuito alla persona e all'opera di Claudel. Tale sospetto si ricollega anche all'opinione assai diffusa che il teatro di Claudel non sia veramente teatro, dramma, ma piuttosto poesia drammatica, una poesia cioè che abbia scelto per esprimersi la comoda forma dialogica, senza curarsi delle relazioni e dei conflitti tra i personaggi (e della loro stessa esistenza come persone vive) che sono condizioni dell'opera di teatro. Questi difetti si notano, è vero, nei primi drammi di Claudel per i quali c'è da parlare d'un « lirismo preconcetto » che impedisce che i personaggi vengano veramente a contatto l'uno dell'altro, ognuno soddisfatto delle idee e delle parole che possiede. Ma non è questo il caso de "L'ostaggio" dove il dramma non si presenta già formato all'inizio, ma si fa col procedere dell'azione, via via che i personaggi s'incontrano e reagiscono ognuno alle parole e alle decisioni dell'altro, ognuno secondo la sua natura. C'è ancora lirismo, ma non è più preconcetto, è, per così dire, divenuto « obbiettivo », in quanto è condizione indispensabile perché i personaggi possano dire quel che hanno da dire. A certe altezze, o profondità, altro linguaggio non c'è.
Non tutto il dramma si attiene a questo linguaggio lirico; anche qui si trovano passi e intere scene in cui Claudel adopera espressioni del linguaggio comune, anche se, confrontando "L'Otage", per esempio, con "Partage de Midi", si sarebbe indotti a sostenere che il linguaggio dell'opera di cui stiamo parlando ora è, quanto più è possibile, liricamente unitario. La presenza del linguaggio comune è specialmente evidente nel terz'atto, là dove Turelure è al centro dell'azione con le sue proposte per ottenere sicurezza e vantaggi materiali; ed io non credo che si debba trascurare la considerazione di questa circostanza. Anche Turelure, finché, come nel secondo atto, aveva da proporci una sua visione della vita, da parlarci delle sue emozioni di uomo assetato di libertà e di giustizia sociale, finché in qualche modo rimane nel mondo dello spirito — sia pure negativamente, demonicamente — ci parla con un linguaggio ricco di immagini evocatrici e creatrici; e, insieme a Georges, col suo mito d'una età dell'oro da restaurare, può mantenere rapporti con Sygne, la creatura spirituale per eccellenza, con il curato Badilon, e con il Papa, le cui parole sono tutte mirabili parafrasi di passi scritturali — la Chiesa che parla per mezzo dei testi divinamente ispirati. Poi non più; il danaro, la vanità lo hanno distrutto, è divenuto uomo solamente terreno. Il decadimento di Turelure, preannunciato da parole ancora gravide di immagini che non riescono a celare la bassezza del suo animo plebeo, potrebbe indurre a sospettare in Claudel oscurantistiche simpatie per un ordine cristiano di tipo aristocratico-feudale, il che pare trovi conferma nel fatto che Sygne, la virgo sapiens, la mulier fortis, è una nobildonna dell'acien regime, come se di tanto grande sacrificio possa essere capace solamente un'aristocratica. E questo, non c'è dubbio, appartiene al pensiero dell'autore; ma bisogna ben comprenderne le ragioni e il significato. Il mondo nuovo che nacque dalla rivoluzione, con tutti gli aneliti di giustizia che ha appagato in un secolo e mezzo e più, verso la fine dell'ottocento, quando Claudel si formò la sua sensibilità intellettuale, non aveva ancora dato sufficienti motivi (almeno ai poeti) di sperare che da esso sorgesse una nuova forma di civiltà cristiana in cui « libertà, eguaglianza e fraternità » s'identificassero con le loro matrici evangeliche. Il mondo nato dalla rivoluzione è per Claudel ancora quello babelico e percorso da incessanti correnti d'odio che ci descrive ne "La Ville". È logico che un tale mondo abbia per capostipite un Turelure così com'è, ed è giustificato che la persona che possiede il senso fondamentale d'una vita cristiana sia una donna come Sygne, per la quale la tradizione feudale è solamente involucro delle virtù cristiane antiche, valide non perché antiche, ma perché eterne. E difatti la « restaurazione » di Sygne non è attesa d'un tempo di riconquista temporale, ma di conquista dell'eterno. Senza necessariamente dimostrarci di spregiare le possibilità del tempo a venire, il che non è cristianamente lecito, l'anima di Sygne, cosciente che i tempi, benché possano continuare a succedersi, sono finiti con l'avvento del Cristo e il sacrificio della Croce, l'incerta di ogni cosa, ma sorretta dalla Grazia, si appunta verso l'eternità. Lo stesso si può dire di Claudel e del messaggio fondamentale che scaturisce da questo suo dramma, valido quando
lo scrisse, valido oggi e domani.
La scelta di questo testo da parte del Comitato che organizza ogni anno la Festa teatrale di San Miniato, con animo tanto sereno e fiducioso, tra difficoltà d'ogni genere, è senz'altro cosa da lodare. "L'Otage", per il suo invito a contemplare le vicende terrene nella luce della realtà perenne del Cristo crocefisso e della nostra destinazione eterna, è forse l'opera, tra quelle che sono state fin qui rappresentate, il cui messaggio più chiaramente riflette l'intenzione fondamentale dei promotori della manifestazione: aiutare il pubblico (e la gente di teatro che tanto peso ha nel determinarne il gusto) a ritrovare il senso totale, e perciò veramente « reale », della natura e della vita umana.
Dalla realizzazione scenica non tutti i maggiori valori contenuti nel testo di Claudel sono emersi con evidenza. Il regista Ferrerò ci è parso che non sia riuscito a portarsi al livello spirituale dell'opera ed ha interpretato la visione di Claudel — che è metafìsica, sacramentale, liturgica — in senso psicologico e devozionale, per cui i personaggi sono spesso sembrati privi di una dimensione che era proprio quella per cui erano stati creati. Dal che è poi derivato il procedere eccessivamente serrato della rappresentazione, senza spazio perché la parola lasciasse diffondere intorno le immagini di cui è pregna.
È probabile che l'atteggiamento del regista nei riguardi del trascendente abbia in parte influito sulla decisione di adottare la variante proposta dallo stesso autore per la scena finale, che si presta certamente più dell'altra ad una interpretazione psicologica. Secondo la versione adottata, non è il curato Badilon, ma Turelure che assiste Sygne nei suoi ultimi momenti. Le parole non sono molto diverse, ma si affaccia la possibilità che Turelure, ora che Georges è morto senza sacramenti, voglia far finalmente sua questa donna fiera che non ha mai potuto veramente possedere nell'intimo, e che a suo modo ha amato, proponendole di credere di avere dato la vita mossa dal sentimento coniugale, e invitandola a perdonarlo.
Questa variante non ci soddisfa, parendoci che non esistano sufficienti premesse nel testo perché possa essere proposta come conclusione. Inoltre, essa rende più complessa ì'interpretazione d'un passo assai difficoltoso, come è appunto
il finale dell'"Ostaggio". Talché c'è chi vi legge un estremo rifiuto di Sygne alla grazia, cosa che a noi pare contraddica comunque le intenzioni generali del dramma. Questa interpretazione del passo, tuttavia, non poteva essere facilmente allontanata dallo spettatore, avendo il Ferrerò ridotto le proporzioni dei personaggi, così che Sygne perde ai nostri occhi molte delle virtù spirituali proprie della Virgo sapiens, della martire cristiana, e appare piuttosto circoscritta nei limiti della virtù aristocratica.
L'intelligenza spirituale e la sensibilità artistica di Gualtiero Tumiati hanno lasciato immune il curato Badilon da ogni insidia, e questo nostro grande attore, anche se nei panni di un personaggio che troppo poco gli somiglia (quanto volentieri lo avremmo visto nella parte del Papa!), è stato senz'altro il migliore del complesso. Gianni Santuccio ha prestato calore alla figura di Turelure riuscendo, specialmente nel secondo atto, a far vibrare la parola poetica in tutta la sua
intensità. Carlo D'Angelo è stato un Coufontaine dignitoso e preciso, e una certa mancanza di flessibilità della sua recitazione ci pare si debba ascrivere al carattere e ai modi del gentiluomo indurito dall'amarezza e dalla vita di stenti che conduce. Il personaggio del Papa era incarnato da Orazio Costa, che tanto del meglio di sé dette come regista dei tre spettacoli che curò qui a San Miniato; la sua prestazione d'attore ci ha lasciati perplessi, soprattutto perché ci è sembrata eccessiva la sua « umanizzazione », e, d'altro canto, troppo recitati i passi scritturali che un uomo di Chiesa immette con tanta maggiore semplicità nel suo discorso, specialmente quando, come qui, parla di Dio e dei suoi provvidenziali disegni. In quanto a Lillà Brignone, che era Sygne, le intenzioni della regia sono venute necessariamente a gravare in particolar
modo sul suo personaggio, per cui si può dire che, per quanto notevole si possa considerare la sua esecuzione, non è riuscita a far vivere l'anima di questa mirabile figura.
Lo spettacolo, tuttavia, prescindendo da questi rilievi, è stato degno della bella tradizione di San Miniato, al cui esempio di passione, di integrità e di intelligente intuizione il nostro teatro deve guardare, se vuol trovare il senso della funzione che ha da assolvere nel mondo d'oggi. Il pubblico ha seguito la vicenda con grande interesse ed ha calorosamente applaudito e festeggiato interpreti e regista.
MARIO ROBERTO CIMNAGHI Il Popolo, Roma, 26 Settembre 1957
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