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Il Piccolo - La recensione di Roberto Canziani
 

Il solito Bernanos musa «di ritorno»
Dicevano gli antichi che anche Omero, ogni tanto si addormenta. Non dovremo allora concedere anche agli autori del teatro cattolico di appisolarsi un po'? Certo, per un teatro di idee, qual è sempre stato quello cattolico, corrono tempi difficili. Né Dio né gli uomini paiono mostrare, da vent'anni a questa parte, benevolenza per le forti e tormentate costruzioni spirituali che in altro tempo furono invece mostrate a esempio dello scrivere italiano per il teatro. Anzi, passavano come unico esempio di questa specialità, se è vero che Diego Fabbri era considerato fino a ieri il miglior campione della nostra drammaturgia dopo il tramonto delle matrici pirandelliane.
L'affermazione, naturalmente, era falsa, ma è la testimonianza vera di un'epoca e di un momento nel quale il dibattito delle idee e la discussione sull'impegno morale occuparono tanta parte dello spazio teatrale. La storia, ormai più che quarantennale, dell'Istituto per il dramma popolare e delle sue «Feste» (nate a San Miniato nel 1947), è una spia sensibilissima del peso che la drammaturgia di ispirazione cattolica ha di volta in volta rappresentato nel distaccarsi del teatro italiano dalle eredità della prima metà del Novecento.
La maschera e la grazia (così si intitola un bello studio di Andrea Mancini dedicato a questa storia, più lunga addirittura, seppur di qualche mese soltanto, di quella del Piccolo Teatro milanese) si sono incontrate con esiti diversissimi nel corso di quarantatre edizioni tutte allestite sul poggio di San Miniato verso l'industriosa valle dell'Arno. Nella piazza di fronte al Duomo ebbero spazio tre debutti di Diego Fabbri; copiosissime regie di Orazio Costa; storiche versioni italiane di Bernanos, Eliot e Claudel; perfino il sopravvalutato lavoro di un giovarne polacco destinato ad altra gloria, piuttosto che a quella teatrale: Karol Wojtyla, autore men che ventenne di un Giobbe ripreso, per la Festa del 1985, dalle mani ispirate di Krzysztof Zanussi. Ma la drammaturgia d'ispirazione cattolica — si diceva — dorme il giusto sonno che le concedono i tempi nostri, affamati di «look» non di contenuti. Certi sussulti di due stagioni fa, le ronconiane Carmelitane di Bernanos, o il Partage Du Midi di Claudel, oppure il polemico successo nella Cannes cinematografica di Sotto il sole di Satana (sempre di Bernanos) non sembra ugualmente annunciare un risveglio. E nemmeno le feste sanminiatesi lasciano prevedere esiti diversi, portate come sono al ripensamento piuttosto che alla spinta, dove invece certo attivismo giovanile cattolico o l'eresia di Giovanni Testori potrebbero dare moto a dinamiche molto, molto vivaci. Viene anche da chi è laico l'augurio che San Miniato sappia mettere le mani avanti, più che ricacciarle nei trascorsi, offrendoci solo, come fa in questa edizione, di ritornare a Bernanos. Certo la formula della festa che prevede l'allestimento annuale di una novità, meglio potrebbe essere piemiata se non si scegliesse la via del rifacimento di un testo letterario che sfortunatamente data 1927.
In quell'anno Georges Bernanos pubblicò L'impostura, inizialmente pensatc come Les Tènébres per quella scelta notturna che dei quattro atti (adattati da Pascal Bonitzer e Gerard Wajcman) fa altrettante notti. Per la regista Brigitte Jaques, scelta quest'anno dall'Istituto per il dramma popolare dopo il successo della versione francese, L'impostura è un dramma della menzogna, quello di chi avendo perduto la fede non intende, però, perdere il ruolo di maestro che da quella fede gli era derivato. Questo, ridotto alla sintesi più piana, il ritratto del protagonista, l'abate Cènabre, impasto straordinario di lucidità dialettica e di tormentata disillusione religiosa, gigante psicologico che, presente o appena evocato, oscura il quadro di una Francia anni Venti tratteggiata derisoriamente nei suoi rappresentanti di fede, politica e cultura. Gli interlocutori che in quattro notti permettono a Cènabre (Roberto Herlitzka) di sbalzare in impostura la propria conflittualità sono il vecchio abate Chevance (Antonio Pierfederici), un doppio pavido e umano del protagonista, il giornalista Pernichon (Franco Castellano), vittima vera della menzogna e spinto cinicamente al suicidio, e il barbone Framboise (Mario Maranzana), doppio invece ironico, che fa del proprio pensiero randagio l'antidoto più bruciante all'impostura, «sacrilega incoerenza» di Cènabre. Prova di attore preciso, forte, senza nessuna concessione facile, per Herlitzka aiutato anche nel suo eloquio di tanta, ipocrita, appassionata retorica dalla traduzione di Luigi Lunari.

Roberto Canziani, Il Piccolo 22 luglio 1989




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