Un evento che onora la cultura ed il teatro del nostro Paese
San Genesio, l'unico attore diventato Santo che le storie del teatro e dei santi con identico stupore segnalino, è investito della duplice responsabilità di essere patrono dei comici di teatro nonché di San Miniato, l'antica cittadina sita, su un poggio verdissimo, a metà strada fra Firenze e Pisa.
Ed è stato proprio nel giorno in cui la città festeggia san Genesio, perciò sotto l'auspicio più completo, che nella chiesa di san Francesco ho assistito alla rappresentazione di Assassinio nella Cattedrale di T. S. Eliot, allestita dall'Istituto del Dramma Popolare in collaborazione con il Piccolo Teatro della Città di Milano.
«L'Istituto del Dramma Popolare — è detto fra l'altro nel programma — mira a riportare il teatro alle alte funzioni cui assolse in origine, togliendolo dai ristretti ambienti degli iniziati e riportandolo 'in piazza' (o nelle chiese che è lo stesso) al popolo, nella sua espressione più genuina. Così come esso si propone di tornare ad avvicinare il popolo, attraverso quello stupendo mezzo di comunicazione che è il teatro, ai più alti valori umani e cristiani, che del popolo sono la sostanza migliore. Si tratta di riprendere la tradizione delle Sacre Rappresentazioni del Medio Evo, non già attraverso esumazioni e ricostruzioni da museo, ma creando una nuova 'Sacra Rappresentazione' (nel senso più ampio della parola) per il popolo d'oggi, con i suoi problemi d'oggi».
Queste le intenzioni nobilissime dell'Istituto. Intenzioni che già lo scorso anno si tradussero, con la rappresentazione de La Maschera e la Grazia di H. Ghéon in una prima valida prova e che quest'anno, per il coraggio e l'intelligenza veramente ammirevoli degli organizzatori, si sono concretate con l'Assassinio di Eliot in un fatto artistico e culturale, la cui importanza trascendendo i limiti consueti di uno spettacolo sia pur d'eccezione, tende a costituire un caso di grande interesse, dalle cui conclusioni possono trarsi indizi preziosi per la valutazione di problemi più generali e vasti. È chiaro che date le premesse dell'Istituto la scelta dell'opera non avrebbe potuto essere più rischiosa. La vicenda di Tommaso Becket, arcivescovo di Canterbury, che dopo un lungo esilio riprende possesso della sua sede, provocando con il suo atteggiamento di intransigente fedeltà alla Chiesa di Roma la decisione omicida del Re, dopo che sotto forma di tentatori si sono riaffacciate alla sua mente le antiche ambizioni di vita sensuale, di potenza e di dominio, si risolve, nella fantasia del poeta, in un dramma di alta e religiosa poeticità, impostato sulla lotta che Tommaso conduce con il quarto, il più insidioso, dei tentatori che gli offre l'ambizione della santità, e del quale l'Arcivescovo avrà ragione quando avrà compreso che solo nel totale annullamento di se stesso in Dio è riposto il senso esatto della sua dolorosa missione.
Tema arduo, proposto nei modi di una poesia che fino all'avvenimento di cui si parla, sembrava essere più adatta ad un'attenta lettura che non ad una rappresentazione teatrale.
E chi conosce la difficile opera di Eliot sa quali asperità un testo di così rigorosa natura poetica presenti alla traduzione scenica e d'altra parte quali suggestioni offre al regista quell'atmosfera simbolista in cui il dramma si muove e che potrebbe, se male assecondata, tradire l'essenza drammatica del testo conducendo ad una facile esteriorizzazione di motivi con essa intimamente legati, così come le magnifiche parti corali potrebbero prestarsi ad un'esecuzione che valorizzandone solo gli aspetti musicali e fonetici ne minimizzerebbe o soffocherebbe la sostanza umana e poetica.
Ora, chi ha assistito alla rappresentazione può dire con tranquilla coscienza, non solo che ogni pericolo è stato evitato, le facili suggestioni escluse e il testo rispettato fino allo scrupolo, ma anche e soprattutto che l'edizione offerta dall'Istituto del Dramma Popolare, che con scelta felicissima ne aveva affidata la realizzazione al Piccolo Teatro, ha superato ogni più esigente aspettativa. La regia di Giorgio Strehler infatti ha operato l'incanto di tradurre nel modo più efficace ed avvincente il difficile testo, creando uno spettacolo magnifico per atmosfera e tono, inquadrato mirabilmente nella cornice austera di una scenografia semplicissima che Ratto aveva costruito con poetica intuizione, assecondando perfettamente le intenzioni del regista.
Si immagini l'abside di un'antica chiesa limitata sul fondo e dalle parti da grandi tendaggi neri; al centro, unico elemento, un'immensa vetrata a sesto acuto, costruita in cellophane, raffigurante gli apostoli Pietro, Paolo e Giovanni, a colori caldi e intensi. In luogo del palcoscenico una piattaforma da cui partono quattro passerelle disposte a crocerà; le due posteriori conducenti sul fondo, le anteriori ai drappeggi laterali; sul davanti la loggia del coro delle donne di Canterbury e il pulpito. Questi i semplici elementi su cui Strehler ha costruito lo spettacolo, raggiungendo con l'essenzialità della scena effetti di mobilità e vivacità sorprendenti; come nella mirabile chiusa della prima parte, in cui il coro delle donne, quello dei tentatori e quello dei preti univano alla suggestione delle parole, concertate in un contrappunto perfetto, quella di un'armonica e calcolatissima disposizione di gruppi; questi gli elementi che gli hanno consentito di muovere felicemente le figure del dramma in una limpida e austera nudità in cui gli atteggiamenti dei personaggi acquistavano una plasticità maestosa, mossi secondo un preciso disegno, in ossequio ad una precisa funzione figurativa, del tutto aderente alle intenzioni del testo. E non sembri pedanteria insistere su questo dato, ma Strehler, eliminando luoghi deputati, il gioco dei velari o le ingombranti e macchinose invenzioni scenotecniche ha realizzato lo spettacolo a scena unica (uno spettacolo che potrebbe essere portato su qualsiasi piazza, in qualsiasi teatro) pur rendendo con il solo ingegnosissimo uso degli attori tutte le necessarie suggestioni. Si pensi, ad esempio alla magistrale scena dell'uccisione di Tommaso, quando i messi del re premono alle porte sbarrate della Cattedrale tentando di violarle, mentre i preti, dall'interno, disperatamente le difendono appoggiandovisi con tutto il corpo.
Ebbene le porte non esistono ed è solo la mimica degli attori, prodigiosamente impiegata, che rende la precisa impressione dell'affannosa difesa delle porte; un particolare, ma di non poca importanza e degno di essere sottolineato, così come mi sembra sia da sottolineare il fatto che alcune donne del pubblico si siano segnate quando Santuccio, nelle vesti dell'Arcivescovo Tommaso, salito su un vero pulpito a recitare la famosa «predica di Natale», finì impartendo la benedizione. Ingenuità? Forse, ma io credo che non possa esistere, oggi, per un regista conquista più soddisfacente di quella di riscoprire in un pubblico disincantato l'ingenuità perduta, di riuscire ancora ad avvincere e commuovere con un'opera che parrebbe la meno adatta ad assolvere una così ardua funzione. Perché allora vuoi dire, non come ha scritto un critico, che si è «tarpato il testo in una traduzione ritualistica», bensì che lo spettacolo ha in sé la forza di trasformarsi nell'antico rito in cui nei secoli passati gli uomini si riconoscevano ed esaltavano in una comunione che oggi pare assurdo tentare risuscitare. Un caso eccezionalissimo dovuto all'incontro fortunato, ma occasionale, con l'opera che poteva offrire una così alta possibilità; perché il problema proposto dall'Istituto del Dramma Popolare, il voler risuscitare cioè una nuova moderna «Sacra rappresentazione», è problema di testi e non di particolari condizioni popolari oggi inesistenti e possibili solo in un diverso clima sociale.
Ma questo è un discorso che richiederebbe una troppo lunga digressione, e mi preme invece utilizzare lo spazio che ancora mi rimane per dire, in breve ormai, degli altri notevoli pregi dello spettacolo. Primo dei quali il perfetto uso dei cori; quello delle donne di Canterbury (le bravissime Lillà Brignone, Edda Albertini e Lia Angeleri) concertato in modo stupendo, ha raggiunto in una gamma variatissima di toni, risultati imprevedibili: la staticità del gruppo pareva riscattata dalla evidenza mobilissima delle stupende immagini del poeta suscitate dalle voci delle donne.
E non mi pare che esso, come ha scritto il critico dell'Avanti, desse l'impressione di proferire «delle parole di cui non poteva prevedere l'intima vitalità» ma anzi queste mi son sembrate tutte sottolineate in incisivi, patetici o disperati accenti in forza dei quali la fantasia poteva con facilità immaginare le piccole grandi cose per cui le donne di Canterbury trepidavano e soffrivano minacciate nei loro beni da conflitti troppo distanti da loro. Altrettanto perfetto il coro dei preti (Marcello Moretti, Umberto Giardini, Marcello Bertini) tutti caratterizzati diversamente in figure di una commovente umanità. D'Angelo, Farese, Feliciani e Battistella diedero vita alle vigorose figure dei tentatori prima e dei cavalieri poi con una sorprendente aderentissima comprensione dei diversi personaggi. Gianni Santuccio è stato l'Arcivescovo, e il suo sforzo di creare il personaggio, certamente difficilissimo, è da elogiarsi.
Tuttavia in alcune scene, e nella celebre predica in ispecie, la sua interpretazione non ha del tutto convinto, mentre in altre (quella dell'uccisione ad esempio) forse più aderenti al suo temperamento, la figura dell'Arcivescovo è apparsa in tutta la sua veemente e dignitosa maestà. Rimangono da citare i bellissimi costumi di Bissietta (un sanminiatese di sicuro talento), le musiche di Fiorenzo Carpi, i cori diretti dal maestro Piombini che hanno offerto un contributo essenziale alla perfezione di alcune scene, le sculture di Bruno Antonini; l'aiuto regista Lotti, e ancora una volta un elogio incondizionato dell'Istituto del Dramma Popolare, presieduto dall'Avv. Gazzini.
Il compito della organizzazione generale dello spettacolo è stato assolto con la consueta magistrale perizia da Paolo Grassi.
Unica nota stridente: la giustificazione che alla fine i cavalieri hanno dato all'assassinio; e si sa quanto infastidisca quell'improvviso tono dimesso, discorsivo, dopo il lirismo di tutta la tragedia; ma questo è — a mio avviso — difetto del dramma, non del regista, che tuttavia avrebbe potuto cercare di rendere meno stridente il contrasto.
Silvio D'Amico parlando alla radio ha detto trattarsi dello spettacolo più bello del dopoguerra e non è difficile consentire in un giudizio che soltanto a chi non ha assistito alla rappresentazione può apparire azzardato, poiché si è trattato veramente di uno spettacolo magnifico, denso di importanti intuizioni, nuovo e consistente, la cui importanza avrebbe meritato di essere più efficacemente sottolineata dalla critica ufficiale dei grandi giornali nazionali che hanno il compito di raccogliere e divulgare gli eventi che più altamente onorano la cultura e il teatro del Paese.
Romolo Valli, Reggio Democratica, Reggio Emilia, 29 Agosto 1948
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