Billy Budd
Stilizzata da Pietro Cascella, l'enorme nave bianca, profusa nelle nebbie di un tempo primordiale o comunque non storicizzato, si staglia come una macchia glauca tra le quinte medioevali della piazza del Duomo a San Miniato. A quell'oceano rimanda l'animo umano, che è vero protagonista del magico Billy Budd di Hermann Melville. È infatti al testo postumo (1891) dello scrittore americano, alla sua insondabile esplorazione di segrete interiorità, che è approdata quest'anno la Festa del Teatro, organizzata, come sempre dall'Istituto del Dramma Popolare. Carica di anni (sono cinquantuno con questa edizione) la manifestazione, che ha tra le sue pietre miliari Silvio D'Amico, vanta una gloria vetusta, sorretta da un rigoroso doppio binario: la presentazione e l'allestimento in prima battuta, per l'Italia, di drammaturgie che portino in primo piano la tensione spirituale e i dubbi e gli interrogativi dell'uomo sul senso del proprio percorso.
L'esigenza originaria, pur inizialmente ispirata e dominata dalla matrice cristiana, si è successivamente (ma anche obbligatoriamente) aperta in una ricerca incessante, seguendo un ventaglio ideale e religioso che ha compreso nel proprio carniere autori di vaglia. Mostrando però, negli anni più recenti, l'urgente bisogno di una "spolverata", di un adeguamento fattuale alla relativa "carenza" di "materia prima". Così Enrico Groppali, per l'adattamento teatrale, e Sandro Sequi, per la regia, si sono imbarcati non senza difficoltà nel compito generoso di portare in scena la vicenda del "bel marinaio" cantata da Melville nei toni di un'epica "al singolare", redatta in forma breve e tono minore ma non per questo meno penetrante.
Tuttavia è il luogo stesso dell'allestimento che, se da una parte ispira come una brezza a più alti valori, dall'altra limita e censura un'esplorazione totale delle ambiguità e delle ombre insite nel breve racconto. Succede a Massimo Foschi, illustrando la debolezza del Capitano Vere, cui egli presta soprattutto potenza vocale, senza però giustificare l'appeal del "martoriato e sconfitto", probabilmente invaghito del fascino stesso di Billy. Allora è Corrado Pani, in una prova ruggente, a sostenere il senso e il peso della regia facendo pienamente sua l'immagine contorta del viscido Claggart, il maestro d'armi; roso dall'invidia e, forse, anche lui, da un amore represso per la solare bellezza di Billy Budd. Il giovane forte e puro come Adamo, l'essere fatalista e inconsapevole come può esserlo un animale di razza, il puledro che segue fedelmente il proprio padrone, il destino, è incarnato da Maximilian Nisi come il "buon selvaggio", un nobile barbaro che vive "l'armonia con la legge naturale", ma talmente accecato dalla sua stessa innocenza di non comprendere le ragioni malvagie e le false accuse degli uomini. Condannato a morte per aver ucciso il sui aguzzino, sino all'ultimo canta «felice e spontaneo come avrebbe fatto un cardellini in gabbia». La sua tragica fine, ispirata a un fatto leggendario, risuona allora attuale (e qui sembra giusta la collocazione sanminiatese del dramma) e ci avverte con potenza d quella compiaciuta lebbra del male che eternamente corrode l'esperienza umana.
ERMANNO ROMANELLI, Primafila, settembre 1997
|