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Ls recensione di Giuseppe Calendoli
 

La recensione

Lo straniamento come trasvalutazione della realtà

Il dramma di Christopher Fry Il Primogenito, rappresentato a San Miniato per la XVII Festa del Teatro con la regia di Grazio Costa, è stato definito da alcuni critici un'opera fredda e, sotto molteplici aspetti, questo drastico giudizio può essere accolto; ma richiede una spiegazione. Un elemento di gelido, ma consapevole distacco costituisce sempre un fattore determinante della poesia di Christopher Fry: quello attraverso il quale egli riesce a conquistare le note più eleganti e più limpide della sua ironia nei due drammi che già sono stati rappresentati in Italia La signora non è da bruciare (nel 1952) e Una fenice assai frequente (nel 1956).
Anche nel Primogenito può essere rilevato il medesimo senso di distacco, ma con una intenzione radicalmente diversa che non deve sfuggire se di quest'opera difficile, ineguale ed esornata si vuole cogliere il nucleo poetico essenziale.
Il Primogenito, composto tra il 1938 ed il 1945, si ispira al racconto biblico dell'Esodo. Nell'estate del 1200 avanti Cristo, il Faraone Seti II auspica il ritorno di Mosè, che è stato suo vittorioso condottiero nella guerra contro gli etiopi, per combattere le popolazioni della Libia.
L'ebreo Mosè, scampato miracolosamente alla strage dei fanciulli della sua razza, è stato allevato alla corte faraonica come egiziano; ha raggiunto il più alto grado della milizia; ma un giorno, mentre la sua guardia del corpo frustava fino al deliquio un muratore ebreo, ha «ravvisato la faccia di sua madre... sul volto di quel muratore maciullato dai colpi», ha «riconosciuto in quel volto la sua stirpe» ed è scomparso. È scomparso dopo «aver ucciso la sua parte di egiziano nell' Egiziano sua guardia del corpo» e dopo averlo seppellito nella sabbia.
Quando Seti II formula l'auspicio del suo ritorno, Mosè riappare alla corte del Faraone insieme con il fratello Aronne, ma soltanto per rivendicare la libertà del popolo ebraico oppresso dagli egiziani. Il Faraone è irremovibile nel suo governo dispotico ed è pronto esclusivamente a restituire il comando dell'esercito a Mosè, purché egli dimentichi la sua razza. Ma Mosè ormai sa che è stato chiamato a compiere una missione divina. Sull'Egitto si abbattono i flagelli. La morte colpisce tutti i primogeniti e fra essi anche Ramses figlio di Seti II, mentre Mosè, chiamato a raccolta il suo popolo, lo conduce verso la Terra promessa.
Cristopher Fry ha rievocato la vicenda biblica sforzandosi di animare drammaticamente, cioè di caratterizzare i suoi personaggi. Del Faraone ha dato un'immagine psicologicamente sfumata: è un sovrano severo, rigorosamente obbediente alla ragion di stato, ma di intelligenza viva. Viceversa, il figlio Ramses è un giovane aperto agli urgenti problemi sociali del regno, disposto al riscatto degli Ebrei, mentre la giovane e avvenente Teusret, sorella di Ramses, è una principessa sofisticata, che tenta di mascherare dietro la parvenza di un'irrequieta vanità una carica di malinconia e di insoddisfazione inconsapevole. E la sorella di Mosè, Miriam, ha un figlio. Sbendi, che non esita a tradire la propria razza
ed a porsi al servizio degli egiziani oppressori, quando gli è offerto il grado di ufficiale. Ed infine, sulle opposte rive della vicenda, Anath Bithiah, sorella del Faraone, e Miriam sono due donne indecise tra la rivolta e l'obbedienza, due donne seppure in maniera diversa volubili, trascinate dalla volontà degli uomini e dalla piena degli affetti.
Dunque, nel Primogenito, il drammaturgo non ha trascurato alcun particolare perché i personaggi della vicenda biblica, nel loro contrapporsi e nel loro distinguersi, assumessero una dimensione di umana credibilità. Ma non per questo ha inteso conferire alla vicenda una dimensione umana; anzi, con tutte le forze della sua fantasia e con tutte le risorse del suo espertissimo linguaggio, ha trasferito la vicenda sul piano di spiritualità religiosa che le è proprio. E perciò ha evitato che la rivendicazione di Mosè prendesse sia pur minimamente i colori di una lotta sociale e che la ostinazione di Seti II apparisse come la violenta manifestazione di un bieco oppressore. Mosè e Seti II nel dramma di Christopher Fry, non sono due mistici, ma due strumenti di un infinito disegno divino. Ed alla fine, come lucidamente mette in rilievo il poeta, non vi sarà né un vincitore né un vinto; ma una soluzione nella quale il dolore degli uni diverrà il dolore degli altri nel corso di una vicenda attraverso la quale faticosamente l'umanità fa proprio il comandamento superiore.
Questa superiore finalità della vicenda Christopher Fry si è proposto di comunicare allo spettatore, rendendo i personaggi del dramma, pur caratterizzati umanamente con tanta precisione, simili agli inconsapevoli elementi di un vasto giucco, simili ai termini quasi incorporei di una dialettica divina. Ed ha creduto di ottenere il risultato, considerandoli con distacco e svincolandoli dalle loro terrene passioni, cioè raggelandoli.
La freddezza indubbia del Primogenito è, in conclusione, la condizione necessaria della sua possibilità di poesia. Naturalmente non sempre l'ispirazione assiste Christopher Fry in questa ardua operazione di trasfigurazione. In molte parti il dramma, che ha richiesto un difficile lavoro di interpretazione e di traduzione di Cesare Vico Lodovici, è sostenuto più che da un autentico respiro poetico, da un accanimento di resa linguistica. Lo scrittore si affida soprattutto al suo straordinario e raffinato magistero formale, al suo potere immaginifico, risentendo tutte le influenze del decadentismo sia pure attraverso il filtro di un prezioso ermetismo. Ed allora l'opera risulta più valida alla lettura che alla rappresentazione.
Un dramma di struttura interna così complessa, anche per il suo eccezionale pregio linguistico, si presta alla recitazione in un luogo raccolto che possa farne nettamente risuonare le molteplici e fragilissime sfumature, che non disperda e non adulteri con amplificazioni eccessive il tessuto sottile delle sue continue allusioni e delle sue numerose trasposizioni concettuali. Grazio Costa non poteva evidentemente adottare questa misura a San Miniato, dove lo spettacolo, com'è tradizione dell'Istituto del Dramma Popolare, è stato allestito all'aperto. Egli ha fatto, logicamente, ricorso alla sola risoluzione possibile, quella di trasformare Il Primogenito in una sacra rappresentazione fastosa, arricchendolo con una serie di cori ebraici. Lo spettacolo ha, quindi, assunto una grandiosità esorbitante, ma suggestiva.
Interpreti del Primogenito sono stati Evi Maltagliati, Fosco Giachetti, Luigi Vannucchi, Anna Miserocchi, Paolo Giuranna, Roberto Herlitzka, Nicoletta Languasco ed un foltissimo coro, che Grazio Costa ha diretto con la perizia che gli è consueta. Particolarmente impegnato è apparso Luigi Vannucchi nel personaggio di Mosè, che se non è poeticamente il più rilevante, lo è certo teatralmente per la sua continua presenza in scena.
Le scene e i costumi erano di Giovanni Miglieli; le musiche di Roman Vlad. Le esecuzioni musicali erano dovute al benemerito Coro Polifonico Romano diretto da Castone Tosato. La rappresentazione del Primogenito costituisce probabilmente l'impresa più pericolosa e più affaticante, ma anche più cospicua, attuata dall'Istituto del Dramma Popolare nei suoi diciassette anni di vita intensa.
Il dramma di Christopher Fry ha suscitato non poche perplessità. Alcuni critici hanno affermato che esso si svolge in un clima di astrazione; altri hanno sia pure timidamente ricordato il significativo periodo della sua composizione, che coincide con quello delle lotte raziali in Europa. Noi non crediamo che Il Primogenito rifletta più o meno direttamente una cronaca attuale; ma ha certamente un alto significato attuale: l'oppressione dispotica del potere faraonico e la riscossa del popolo ebraico sono rievocate senza accenti di odio, con distacco, ma con un commosso appello alle supreme finalità dell'uomo. È un dramma nel quale la polemica è stata consumata e superata, come ancora non lo è nella realtà della vita.

GIOVANNI CALENDOLI, La Fiera Letteraria, Roma, 8 Settembre 1963




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