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La recensione di Raffaello Franchi
 

Un rito di rinnovata fraternità
La cronaca, e qualcosa di più, della bella serata sanminiatese dedicata al dramma cristiano La maschera e la grazia di Henri Ghéon, è stata fatta anche da La Patria con giornalistica tempestività. Ma l'importanza dell'avvenimento era tale da meritare, se così ci possiamo esprimere, lo sviluppo di una seconda lastra. E ciò non solo mediante osservazioni direttamente riportate al testo, al carattere e al valore intrinseco dell'opera, bensì nel ricordo d'uno spettacolo che vide il pubblico partecipare, nonché da spettatore, ma veramente con titoli di attore nel complesso di un fatto globalmente articolato, significativo e vivo.
Abbiamo scritto: «era» e «vide». L'uso del passato remoto non sembri casuale. Sta invece a significare come poche ore di distanza stabiliscano quel ricordo nel foco d'una sua perfetta realtà storica e patetica; a spiegare come non si possa prescindere dal rievocare i momenti che precedettero l'aprirsi del dramma dal centro del suo fiore pensieroso. Nel pomeriggio di giovedì 17, San Miniato non pareva punto gonfia di gente preparata ad una sagra popolare. Ma la strada che salendo porta al miracolo architettonico della sua quiete solenne e gentile era stata percorsa da diecine e diecine di macchine da cui, silenziosamente, scendevano creature promesse, e già preparate, alla commozione di un rito. Religioso? Non proprio, o non soltanto. Meglio si parlerebbe d'una cerimonia promossa nel nome della intelligenza e di una nuova, possibile fraternità europea; cerimonia, o voto venuto a esprimersi in un eremo di spirituale eccezione. Erano, un poco, i convenuti fra i quali primeggiavano alte personalità di tutto il mondo latino, paragonabili a un congresso di quegli antichi cristiani, timidi di voce quanto accesi d'amore, che presto la finzione scenica avrebbe fortemente commemorato.
È certo che nessuno, tra quanti durante l'attesa si videro andar girando lungo le strade della cittadina, omise di resuscitarsi, sullo sfondo del colle ormai bruno, la sagoma della bella rocca che i tedeschi schiantarono: in rassegnazione accorata, oltre i limiti di un perdono impossibile. Quando, sulla piazza del Duomo, la spettatrice assemblea ebbe preso posto, un commovente, spontaneo applauso salutò il sopraggiungere del Vescovo, e di Jacques Maritain. Un applauso di liberi. Un'altra acuta, e dolce novità. E da una musica inesperta risuonarono le note della «Marsigliese», cui tennero dietro quelle dell'« Inno di Mameli ». Si smarrirono, le une e le altre, nei toni affiochiti d'una strana dissolvenza, quasi che per commozione anche gli strumenti esprimessero digradante timidezza di voce.
Principiò la recita. Incondizionato elogio meritano subito il regista Alessandro Brissoni e lo scenografo Dilvo Lotti che in collaborazione hanno saputo portare a esatte concomitanze la tarsia dei gesti e degli aspetti. Il palcoscenico resultava difatti prevedutamente bloccato col cupo azzurro stellato, con la nuda fronte del Duomo, e con gli altri prospicenti edifici, perdendo senso di provvisorio e, d'altronde, suggerendo all'artefice delle scene un invito alla discrezione che Lotti ha benissimo inteso. Ancora, per quanto riguarda la regia, non va tralasciato di dire che la gran croce luminosa proiettata sulla facciata del Duomo, dopo che per entro la sua porta ha finito di inghiottirsi il sacrificando Genesio fra gli interni altorisonanti cantici dei fedeli, ha incontrato il convinto «stupor» della folla spettatrice ed attrice. In ordine, cioè, al complesso di unitaria compattezza raggiunta nel modo detto, quella proiezione ha davvero colpito il segno d'una vera apparizione non scenografica, ma propriamente miracolosa.
Sulla trama non abbiamo luogo ad intrattenerci, perché già i lettori la conoscono. Resta a dire che qualunque esempio di teatro francese e cattolico è doppiamente consegnato all'ordine classico: nel senso d'una apoditticità, o dogmatica, che la fede umanizza e consola; di una discorsività ampia; di un gestire volentieri togato; d'una filosofia popolarmente chiara anche se al primo, e più evidente (come in taluni esempi di Claudel) sottentrino altri piani di simbolismi complessi, e meno accessibili. Di cotesta non accessibilità, nel Ghéon non v'è traccia. Ghéon, il quale in fondo osserva la tradizione della «Comédie francese», impegna il pubblico non impressionisticamente, né espressionisticamente, ma per la via dell'attenzione logica; teatro di parola e pensiero semplificati che in semplicità di gesti e figurazioni si specchiano.
Genesio, pagano e politeista convinto, anzi addirittura teatrale sacerdote per il quale Roma non esiste, né alcuna civiltà o realtà apparenti, se non in quanto materiali destinati ad alimentare il divenire eterno e fluido della teatrale bellezza, esige la maschera, quando a malincuore accetta di recitar la parte del martire Adriano, onde non compromettere, con l'individuale immutabilità del proprio volto, le finzioni possibili della voce. È dunque la sua una maschera non simbolica, ma diaframma e difesa. Maschera non pittoresca, ma greca, e ambigua. Terribile solo perché refrattaria a qualunque possibilità di riflesso. Maschera destinata a cadere, quasi foglia di autunno, quando sotto di essa il volto sia diventato tale da non potere ormai più nascondere la fiamma del convertito. Da qui la severa solennità del dramma, il suo non concedere a nulla di pittoresco, la sua elementare, nuda classicità.
Solo si sarebbe voluto, da Ghéon cattolico (cattolico significando universale) che al cristiano Felice, fratello di Genesio, avesse fatto dire che non i cristiani pregavano (e pregano) per gli altri cristiani (in questo incidendo l'idea di setta) ma per tutti gli uomini. L'ebreo Gesù, figlio di Dio, per la salvezza di tutti gli uomini, asceso al Calvario fu tratto sulla croce.
Raffaello Franchi, La Patria, Firenze 20 Luglio 1947




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