La recensione
L'utopia come anima della storia
Può l'esercizio del potere temporale, nelle Chiese religiose (o politiche) di ogni tempo, conciliarsi con la pratica delle virtù evangeliche (o laiche e civili)? Per rispondere a questa domanda Ignazio Silone ha frugato negli archivi e nei monasteri d'Abruzzo dov'è conservata traccia del passaggio terreno di frate Pietro Angelerio da Morrone, divenuto pontefice nel 1294 col nome di Celestino V in seguito a uno dei più lunghi conclavi che si ricordino e rimasto sul trono papale per soli cinque mesi, unico pontefice della storia ad aver compiuto un atto di abdicazione. Fu per «viltade», come suggerisce Dante? O piuttosto la figura di Celestino non è da vedere nella luce proposta da Petrarca: «Considero il suo operato quello di uno spirito altissimo e libero che non conosceva imposizioni... la gioia e l'entusiasmo della sua discesa testimoniano quanto l'ascesa fosse stata triste e contraria alle sue aspirazioni».
La risposta che Silone da nella sua Avventura di un povero cristiano, presentata ieri sera nella Piazza del Duomo di San Miniato a cura dell'Istituto del Dramma Popolare, sceglie chiaramente questa seconda via. La tentazione del potere è la più inevitabile ma anche la più insidiosa per chi alimenta dentro di sé la fiamma di un'idea ed è diviso tra la volontà di mantenerla pura e la necessità di realizzarla fra gli uomini. Pietro Angelerio ci vien mostrato prima nelle sue vesti di umile eremita, simpatizzante con i fermenti dei «francescani spirituali» e le profetiche utopie dell'abate Gioacchino da Fiore sull'avvento di una autentica era cristiana; poi alle prese coi compromessi, gli intrighi e le iniquità, solo per tentar di realizzare la grande speranza di una società cristiana retta esclusivamente dall'amore, dalla carità e dall'umiltà; e infine, caduta quella speranza, nella ritrovata gioia della libertà della coscienza, che tutte le angustie della clandestinità, dell'esilio e della prigionia inflittagli dal suo successore Bonifacio Vili, vissuta fino all'estremo sacrificio della morte, non riescono a scalfire.
La parabola che Silone ci narra con la sua Avventura è, palesemente, quella dell'insopprimibile vitalità dell'utopia come propulsore interno della storia. «Se l'utopia non si è spenta, né in religione né in politica» scrive Silone nella sua introduzione al dramma «è perché essa risponde a un bisogno profondamente radicato nell'uomo. Vi è nella coscienza dell' uomo un' inquietudine che nessuna riforma e nessun benessere materiale potranno mai placare. La storia dell'utopia è perciò la storia di una sempre delusa speranza, ma di una speranza tenace. Nessuna critica razionale può sradicarla, ed è importante saperla riconoscere anche sotto connotati diversi». Quello del pontefice eremita Celestino V è uno dei tanti esempi dei momenti in cui il torrente della utopia se ne esce dagli argini della storia, delle istituzioni, delle ideologie, e rifiuta le ragioni del mondo anche se entro quegli argini e al riparo di quelle ragioni il grande fiume continua a scorrere con acque torbide di compromessi e orgogliose dei successi conseguiti.
Si potrà discutere se il dramma di Silone appartenga alla saggistica piuttosto che al teatro. È evidente — e Silone sarà certo il primo ad ammetterlo — che il suo Povero cristiano è più un dialogo di idee che un dialogo di personaggi. Accade anche che il dialogo segni il passo qua e là e si faccia, come nel secondo atto, troppo illustrativo od astratto. Ma più che discutere di generi letterari, ci sembra che sia da registrare qui una particolare presenza dello scrittore Silone, che ama definirsi da solo l'autore di un solo libro riscritto molte volte in forme diverse. A questo scrittore, nel momento in cui si fa scialo di impegni culturali e si brucia incenso sull'altare dell'attualità, dobbiamo esser grati almeno per due ragioni. La prima, è che in questo scrittore avvertiamo una volontà di contestazione autentica: quella di andar contro alla storia che si consacra da sé sola, che ai nostri giorni ha preso le insegne di un pragmatismo sbrigativo consistente nel culto di ciò che accade giustificato dal solo fatto che accade. Di fronte alle sopraffazioni che istituzioni e poteri di ogni genere consumano ai danni delle idee, della libertà, delle coscienze solitàrie. Silone dice il suo no in nome dei fermenti che sono, e saranno sempre, il motore invisibile della storia dello spirito. La seconda, sta nella semplicità e nella chiarezza spinte fino all'umiltà, che sono della scrittura di Silone in questa come nelle altre sue opere dove sempre si avverte l'aspirazione alla comunicabilità. Il Povero cristiano, senz'ombra di presunzione, è una pagina autobiografica dello scrittore abruzzese, così come autobiografico era l'altro suo dramma, Ed egli si nascose. Se sono visibili le analogie tra la pastoralità e l'evangelismo di Celestino e quelli, a noi vicini, il Papa Giovanni, altre analogie possono leggersi in filigrana: quelle coi dogmi e le istituzioni più recenti, che hanno avuto i loro scismi, i loro eretici e i loro perseguitati. La storia personale di Silone è troppo nota per essere qui ricordata. Anch'egli è uscito da una chiesa nel momento in cui gli argini gli sono sembrati troppo stretti.
Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile dell'Aquila, è stato diretto da Valerio Zurlini, che ha pure curato l'adattamento del testo. La regia di Zurlini è dignitosa, anche se fa leva più sulla verosimiglianza che sulla fantasia: il ritmo dello spettacolo non sempre è sufficientemente teso, e nella recitazione si avvertono alcune sgranature. L'idea di affidare la parte del quasi ottantenne protagonista a un attore giovane e impulsivo come Giancarlo Giannini, in sé non è cattiva, in quanto suggerisce il simbolo di una freschezza di energie che va al di là dell'età storica. Ma la concitazione nervosa che è nello stile personale di Giannini appare a volte in contrasto (ad esempio, nel secondo atto) con la meditata e raccolta pacatezza del personaggio di Silone. Tra gli altri interpreti ricorderemo Gianni Santuccio che fa un robusto ed autorevole cardinal Caetani, poi Papa Bonifacio, e Livia Giampalmo, Carlo Bagno, Maurizio Gueli, Paolo Todisco, Claudio Trionfi, Emilio Marchesini, Donato Castellaneta, Raffaele Giangrande, Alfredo Bianchini, Carlo Valli. Le scene di Alberto Burri consistono in tre grandi, simbolici fondali risolti in suggestivi effetti cromatici. Il pubblico raccolto sulla spianata dinanzi al Duomo di San Miniato ha applaudito con cordialità: si replica fino a sabato.
RENZO TIAN, Il Messaggero, Roma, 5 Agosto 1969
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