Bartolomeo de Las Casas, in scena l'"apostolo degli indios"
Alla 57" Festa del teatro a San Miniato al Tedesco (Pi), il dramma Bartolomeo de Las Casas del giornalista tedesco Reinhold Schneider, adattato dal poeta Roberto Mussapi e diretto da Giovanni Maria Tenti.
REINHOLD SCHNEIDER
Reinhold Schneider nacque a Baden-Baden il 13 maggio 1903 (proprio in questi giorni, in Germania si è celebrato il centenario della nascita) da padre protestante e madre cattolica. Cattolica fu pure la sua educazione.
Dopo gli studi, visse a Dresda fino al 1928. Da questo momento iniziò una serie di viaggi in alcuni paesi europei, che non soltanto gli dettero un'impronta decisiva e una visione ben più larga delle suo prospettive ideali, ma lo aiutarono anche a trovare se stesso, ed una sorta di "salvezza spirituale".
Naturalmente la sua profonda percezione dei valori della tradizione cristiana - dopo un periodo agnostico - lo porta ad un'opposizione netta al nazismo, imperante in Germania: per questo viene perseguitato, la pubblicazione delle sue opere diventa difficoltosa e molti libri escono solo grazie ad edizioni clandestine. Nel 1945 viene condannato per alto tradimento, ma la fine della guerra riesce a salvarlo.
Nel 1938 dopo un lungo soggiorno a Potsdam si era trasferito a Friburgo in Brisgovia, dove morì il 6 aprile 1958.
Italo Alighiero Chiusano definisce Reinhold Schneider un «drammaturgo di levatura europea, (...) Di una sottile e tormentata, ma intimamente luminosa religiosità cattolica, Schneider ebbe, in fondo, come accade a molti veri poeti, un problema solo, ma d'importanza altissima e reso in una straordinaria gamma di variazioni: il rapporto tra Grazia e potere, il diffìcile, spesso esasperante, a volte addirittura disperante quesito di quale sia la parte di Dio è del suo regno nell'atroce e assurdo intrico della storia, dalla più solenne e ufficiale alla più minuta ed oscura».
IL PERSONAGGIO
Il fra Bartolomeo de Las Casas di Schneider non è un personaggio creato per le scene, ma è un fortissimo domenicano (che tra breve assurgerà agli onori degli altari), che, all'epoca di Cristoforo Colombo vide, descrisse e stigmatizzò le brutalità dei suoi connazionali, "conquistadores" del Nuovo Mondo, in particolare delle Antille e delle terre attorno.
Bartolomeo de Las Casas nacque nell'anno 1484 a Siviglia, da Pedro, un mercante originario di Tarifa e da una signora di Sosa.
Il 25 settembre 1493, diciassette velieri e milleduecento uomini salpano alla volta dell'isola d'Hispaniola (Haiti). È il secondo viaggio di Cristoforo Colombo verso le isole del Nuovo Mondo: Pedro de Las Casas partecipa a questa grande spedizione nella speranza di intraprendere nuovi commerci e per cercare un pezzo di terra da sfruttare. Bartolomeo ha appena nove anni e viene affidato alle cure della sorella Isabella. Rivedrà il padre nel 1.499 e partirà con lui, alla volta di Haiti, nel 1501.
Di questo periodo non sappiamo nulla di lui, ma l'ipotesi più credibile è che Bartolomeo abbia intrapreso la carriera ecclesiastica, ricevendo qualche ordine minore.
Ordinato, sacerdote nel 1510, di fronte alla ferocia dei coloni e alle sofferenze degli Indios, non risparmiò spietate denunce al sistema di sfruttamento schiavistico dell'encomienda, denunce che attirarono su di lui le persecuzioni degli ambienti spagnoli locali e, al tempo stesso, l'attenzione del governo centrale. Il cardinale Francisco de Cisneros, infatti, reggente del regno in attesa che il giovane Carlo V ne assumesse il governo, lo incaricò di tutelare i diritti degli Indios e al tempo stesso interessò anche il sovrano alla causa che il Las Casas difendeva.
Nel 1523 Bartolomeo vestiva l'abito domenicano che lo metteva al sicuro dalle persecuzioni dei notabili criollos e dagli stessi prelati spagnoli, incaricati di reggere la chiesa coloniale, e con gli schiavisti spesso in combutta. Da allora tempestò sistematicamente il governo centrale di denunzie, resoconti, suppliche e documentazioni stringenti sugli abusi degli spagnoli e sulle sofferenze degli indigeni.
A queste denunce, che vennero riassunte in un tristissimo documento - la Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie - si deve la promulgazione da parte di Carlo V, nel 1542, delle "Nuove leggi sulle Indie", un autentico caposaldo di saggezza ed equità.
Tali leggi disponevano che i persecutori degli Indios potessero essere condannati, imprigionati e perfino soggetti alla pena capitale.
Minacciato di morte dai suoi avversari, che aveva toccato nei loro interessi, fra Bartolomeo nel 1547 dovette lasciare la sede di Chiapas, dove era stato nominato vescovo nel 1544, e ritornare in patria.
E' in questo periodo che ha luogo la Disputa di Valladolid tra Las Casas, che reclama le qualità morali degli Indios osservate con i suoi stessi occhi per tutto il tempo della sua missione, e lo storico Sepulveda.
Il papa Paolo III, con una Bolla dell'anno 1537, proibiva la schiavitù e aggiungeva esplicitamente, con tutta chiarezza, la dottrina che gli Indios come i bianchi hanno un 'anima immortale e sono in grado di ricevere la dottrina cristiana e i sacramenti.
Las Casas non è stato l'artefice delle grandi realizzazioni, che fanno onore ai missionari francescani, domenicani, agostiniani e gesuiti: educazione dei figli dei cacicchi, redazione di grammatiche e di catechismi nelle lingue del paese, amministrazione dei villaggi indiani.
Il suo vero compito, il suo ministero non era quello. Egli ha operato a contatto diretto con il potere come Procuratore degli indiani, in perfetto accordo con i frati predicatori del Nuovo mondo, da lui stesso reclutati in Spagna.
Al suo appello, rivolto nel suo ultimo anno di vita a Pio V, è dovuta l'istituzione, nel 1568, da parte dello stesso pontefice, di una commissione di cardinali, che doveva evitare che la causa del Vangelo si confondesse, nelle Indie, con gli interessi temporali della monarchia spagnola e portoghese e dalla quale nascerà, nel 1622, la Congregazione per la propagazione della Fede che riserverà alla Santa Sede l'evangelizzazione dei paesi colonizzati dagli europei.
Il 2 ottobre 2002 prendeva il via il processo di canonizzazione di fra Bartolomeo de Las Casas, nell'antica chiesa del convento domenicano di San Fabio, dove era stato consacrato vescovo.
Quella in esame è considerata la più grande opera narrativa di Schneider, dove trova una formulazione particolarmente solenne il dramma da lui lungamente indagato: l'antitesi tra potere e Grazia, tra le irrinunciabili esigenze dell'anima e quelle prepotenti di una determinata interpretazione della storia.
Un dramma che, incarnatondosi potentemente nelle due figure che si fronteggiano, il frate domenicano e l'imperatore Carlo V, mostra come l'abuso del potere porti alla colpa e all'accecamento.
E' un testo che mette in scena il senso di colpa nei confronti dello sterminio razziale, una sorta di contributo al tema della ---resistenza spirituale, vissuto dall'autore come monito, dentro una ricostruzione storica, contro il nazismo, attraverso la condanna delle stragi perpetrate dagli Spagnoli contro gli Indios.
L'assassinio e la caccia all'oro, quali venivano esercitati dai conquistatori spagnoli, non potevano non esser presi che come paralleli delle persecuzioni degli ebrei in Germania.
Bartolomeo de Las Casas, nel 1510, scosso dalla predica di un domenicano, rinuncia a possessi e ad affari, rimette in libertà gli indigeni da lui dipendenti, diventa sacerdote ed avvocato di quelli oppressi e maltrattati e verrà poi chiamato l'apostolo degli indios.
Nell'opera di Schneider si rappresenta un momento particolare della sua vita: non tanto la sua missione tra gli indios, ma il suo problematico e tormentato ritorno in Spagna per sottoporsi, alla presenza dell'imperatore, a una sorta di disputa-processo, in cui sarebbero stati messi sotto accusa i suoi criteri di apostolo in terra conquistata.
Il racconto ci presenta Las Casas già a settantanni, durante la lenta navigazione dalle Antille alla Spagna.
La prima parte consiste nella confessione di un vecchio conquistador, Bernardino de Lares: è una lunga rievocazione, confusa e aggrovigliata come un delirio, in cui si susseguono scene di crudeltà e di terrore, delitti indicibili, manifestazioni di avidità ed episodi di fanatismo religioso.
Nella seconda parte viene rappresentata la disputa con il dottor Sepùlveda - autore di un libro dove sosteneva che la guerra contro gli indigeni pagani era legittima e santa e che il loro assoggettamento doveva precedere la conversione - per una lotta ultima ed estrema in cui si radunano tutte le forze della tentazione, ma appasiono pure tutte le forze della Grazia scesa dall'alto, per respingere la tentazione con la forza della croce.
Las Casas predica pace e fratellanza: gli indios convertiti al cattolicesimo diventano pari ai conquistatori; la conversione costituisce la vera missione, e deve procedere con i mezzi della fede e, in certo modo, all'infuori di ogni riguardo per lo Stato; e poi gli indios, in quanto nati liberi, dovevano sì venir convertiti, ma non costretti alla conversione.
Accettare la tesi di Las Casas significherebbe capovolgere l'ordine e la vita nel Nuovo Mondo, ma in suo favore si offre di testimoniare Bernardino, che rinuncia alle ricchezze mal conquistate e ritrova un figlio naturale fattosi sacerdote: questi decide di seguire Las Casas e di impiegare le ricchezze paterne a favore degli Indios, per dare loro case, chiese e scuole.
L'imperatore Carlo V, in una bellissima scena notturna, accoglie il vecchio sacerdote, gli mostra un progetto di leggi giuste per le nuove terre e lo nomina vescovo di una città del Messico.
Las Casas ha dunque vinto.
IL GRANDE UCCELLO
I temi principali sono quindi quelli del coflitto tra potere e Grazia, tra potere e spirito; il problema dell'essenza del potere e il modo in cui deve essere esercitato; il rapporto tra spiritualità evangelica e machiavellismo della storia; il sentimento della tragicità della vita; la centralità e cosmicità della Croce.
Ma, soprattutto, il grande drammatico tema della libertà interiore e della fraternità, non intesa solo in senso "giacobino" ("liberté, égalité, fraternité"), ma in senso cristiano: "Ama il prossimo tuo come te stesso" (Mt 22,39; Mc 12,31; Lc 10,27b).
Quanto alla libertà interiore, è proprio dei nostri giorni assistere ad un annullamento di fatto della libertà, mediante il bombardmento, sistematico e provocatorio, da parte dei mezzi più sofisticati, partendo da quelli della comunicazione sociale, cioè destinati alla massa dei viventi, per giungere a quelli personalizzati, tipici di una moda corrente, in cui l'orgoglio del sapere e del possedere porta ad un soggettivismo totale.
Certo, per un predicatore di una quaisiasi religione - da quella cattolica a quella delle sètte - l'orgoglio di poter presentare alla comunità un nuovo adepto, un nuovo "battezzato", è grande, e, sotto certi aspetti, legittimo.
Ma fra Las Casas ci ricorda, ancora una volta, che tutto ciò deve avvenire alla luce della totale libertà interiore, per cui la eventuale conversione, intesa come passaggio, e, talora, addirittura, come rovesciamento di vita e di pensiero (vedi Saul di Tarso, Ignazio di Loyola, Edith Stein e mille altri grandi spiriti di ogni tempo e di ogni luogo), non può e non deve essere condizionata da nulla e da nessuno.
Ecco: la vera libertà di Cristo, non quella dei rivoluzionari francesi; una libertà, che pone le sue basi sull'amore, non sulla forza, tanto meno sulla sopraffazione e sulla violenza.
E gli ormai tanti "confiteor" dell'attuale Papa (da Galileo agli ebrei, ai crimini nazionalisti in terra jugoslava) sono esemplari fortissimi di questo solco di vero cristianesimo.
Anche perché il male porta alla morte dello spirito, come l'improvvisa morte del "grande uccello di foggia e colori strani", di cui si ricorda, spaventato, Bernardino di Lares.
LA REALIZZAZIONE
Tutto questo ci porta alla rappresentazione sanminiatese. Che, come si è detto, è stata volutamente a due tempi: il primo di studio, ed il secondo di confronto.
Confessiamo che il primo tempo ci è stato di forte tedio: a nostro avviso, difficilmente si fa teatro (o altro tipo di rappresentazióne) basandosi esclusivamente sul lungo dialogo fra due soli personaggi, nel caso nostro Bartolomeo e Bernardino.
Né sono riuscite a scuotere più di tanto certe "trovate" della regia, come la violenza della tempesta iniziale, vero choc per ogni spettatore, o il passaggio di fondali computerizzati, che però potevano anche accogliere qualche messaggio immaginifico maggiormente positivo (come si è poi verificato nell'ultimissima sequenza, con un fondale azzurro, di un azzurro cielo, di un vero azzurro di fede, di speranza, e di amore).
Anche gli interventi musicali, sia pure molto limitati e molto ricercati, nella loro storicità assoluta, non ci sono sembrati né molto utili, né molto conquidenti.
Invece, la seconda parte della serata ci ha conquistati totalmente, sia per la serietà degli assunti, sia per la dignità umana dei protagonisti - Carlo V, il Cardinale di Siviglia, Sepùlvedà con il capitano Vargas, Bartolomeo con Bernardino di Lares -, sia per l'altissima prova di recitazione, che questi attori ci hanno proposto, diventando tutti, a loro modo, dei veri "mattatori". Così il lungo commosso applauso fidale è andato a tutti questi bravissimi interpreti, ma, in particolare (e nessuno veda in questo una scelta, se non di partecipazione e per l'altissima bravura) a Franco Graziosi, un Las Casas sempre veritiero, anche nei momenti del confronto; a Renato De Carmine, un Carlo V di pochissime parole, ma di rara altissima umanità; a Beppe Chierici, un Bernardino d! Lares, in cui convivono violenza e redenzione; a Franco Sangermano, nella difficilissima ed antipatica posizione del Cardinale di Siviglia; a Walter Toschi, un Sepùlvedà che parla fra l'avversione degli spettatori, ormai conquistati dalla figura e dalle idee di fra Las Casas; ed a Roberto Birindelli, costretto alla parte di un capitano Vargas, legato alla più consunta tradizione militaresca, propria di tempi che ormai sembrano lontanissimi.
LA MASCHERA E LA GRAZIA
E' questo il titolo dell'opera immortale di Henry Gheon, con cui l'Istituto sanminiatese aprì la sua ormai piacevolmente lunghissima vita nel lontano 1947, su traduzione di Guido Guarda e regia di Alessandro Brissoni.
Ebbene, nell'opera proposta in questo luglio 2003 ritrovi tutte quelle profetiche componenti: sotto la maschera dell'umiltà, è la Grazia che lavora.
Siamo rientrati da San Miniato proprio con questo pensiero: l'uomo può tentare tutto per aiutare l'altro a migliorarsi, sia nello spirito che nel corpo, ma se la Grazia di Dio non lavora, anzi, se questa Grazia è ostacolata dalla violenza o dall'orgoglio, difficilmente riuscirà nel suo tentativo di miglioramento.
Perché, Signore, Ti ringrazio di avermi creato libero, anche se di questo tuo dono spesso abuso, e lo faccio diventare licenza. Allora, per il bene mio e per il bene del mio fratello, muoviTi Tu, e, se occorre, addirittura come hai fatto con Saul di Tarso.
Perché io possa sempre rispettare, amare e salvare la libertà interiore del mio fratello, nella scia della Tua parola: "Ama il prossimo tuo come te stesso".
Così, scendendo dal colle di San Miniato verso la pianura pisana, ancora una volta ci si sono intrecciate nello spirito cinque immagini: la maschera e la grazia, di Ghéon; il potere e la gloria, di Graham Greene; Nazarin, di Luis Bunuel; il Curato di campagna, di Bernanos ("Tutto è grazia!"); e la forza suadente ma decisa di fra Bartolomeo de Las Casas.
Bartolo Fornara, L'azione, L'informatore, Il Verbano, Il Monte Rosa, Diocesi di Novara, 26 luglio 2003
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