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Il Messaggero - La recensione di Ubaldo Soddu
 

Un prete malvagio e ipocrita nella Parigi del Novecento
Un prete malvagio, un religioso che ha perso la fede ma continua immancabilmente a recitare la parte di direttore spirituale di molti fedeli, è il personaggio centrale su cui ruota un romanzo di Georges Bernanos, dal titolo L'impostura, che risale al 1927 quando l'autore, nato a Parigi, aveva 39 anni. Questa figura, scissa e sinistra, dell'abate Cenabre è schizzata con gran cura e momenti di autentico fervore conoscitivo che rimandano alle intuizioni di Balzac sulla insorgenza improvvisa del male ma pure a letture freudiane che lo scrittore cattolico aveva sicuramente fatto, almeno dopo la fine della guerra mondiale, cui aveva partecipato come ufficiale di cavalleria. L'attenzione che, soprattutto in Italia, si è condensata negli ultimi anni su Bernanos (si pensi anche allo spettacolo di Luca Ronconi su I dialoghi delle carmelitane) ha spinto l'Istituto del dramma popolare a puntare su L'impostura per la quarantatreesima Festa del teatro a San Miniato, scegliendo in blocco la squadra che a Parigi, la primavera scorsa, aveva rappresentato al Theatre de la ville un adattamento «in quattro notti», dal romanzo.
Pascal Bonitzer e Gerard Wajcman, sceneggiatore il primo e romanziere il secondo, hanno dunque predisposto un copione (tradotto in italiano da Luigi Lunari) che viene trasferito dalla regista Brigitte Jaques sull'ampio palcoscenico, allestito obliquamente al sagrato della splendida chiesa di fronte a un pubblico folto, disposto fra il verde e lontani bagliori di stelle. I tormenti dell'abate Cenabre sono l'antefatto perché egli già pare aver superato i dubbi ed esser lanciato verso l'impostura. Bernanos comunque - ed è questo l'aspetto più interessante del suo scritto - prende in certo modo parte per lui, almeno adoperandolo come una leva o un ariete per scardinare il groviglio di ipocrisie, menzogne, invidie, stupidità e protervia che invischia il messaggio di speranza della Chiesa nel '900, impedendo l'allargamento della coscienza religiosa, il trionfo di Cristo nella solidarietà, nella carità. L'abate trasforma subito la confessione (in cui l'ambizioso Pernichon dichiara soltanto peccati di sensualità) in un attacco a fondo contro le mezze figure che, dietro colpe mediocri, celano solo l'opportunismo. Eccolo convocar poi l'onesto prete Chevance che mette al corrente, senza mezzi termini, della propria crisi e della decisione di continuare a fare l'abate, il confessore, il diffusore di idee religiose. Bernanos guida poi, con assai minore abilità, nei meandri del potere e dell'intellettualità cattolica francese degli anni '20, raffigurando salotti di tigri, di jene che faranno a brani il giovane Pernichon, sveleranno le complicità tra politica e chiesa temporale, svaluteranno le buone opere dei singoli in nome della sopraffazione. Cenabre non avrà ripensamenti - l'adattamento non risolve la sagomatura priva di dialettica del personaggio - e sarà la causa, diretta o indiretta, della rovina di altri disgraziati, dal barbone Framboise alla giovanissima e candida Chantal che gli verrà affidata, dopo la scomparsa di Chevance, quale vittima sacrificale.
I difetti maggiori dell'adattamento (prolissità, mancanza di scavo) si ripercuotono sulla regia che dopo un bell'avvio, non riesce a pennellare l'ambiente ecclesiastico, in cui maturano vizi e violenze e si affida a un impasto di esitante grand guignol e tortuosa riesumazione naturalista. Specie il secondo tempo è troppo frontale, carente di teatralità e il finale, oltre che oscuro, suona didattico, moraleggiante.
Roberto Herlitzka interpreta magistralmente il ruolo dell'abate e fa da architrave all'intero spettacolo che né Antonio Pierfederici, né Fernando Caiati e Mario Maranzana riescono a sollevare da una verbosa mediocrità. Accanto a loro sono pure Franco Castellano, Piero Caretto, Mario Ventura, Sergio Fiorentini, Carlo De Mejo, Augusta Gori ed Eliana Lupo in un dispositivo scenico ordinario di Emmmanuel Peduzzi e musiche di routine, firmate da Marc-Olivier Dupin.
Ubaldo Soddu, Il Messaggero 23 luglio 1989




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