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Il Tempo - La recensione di Lucio Romeo
 

Il più freddo degli inverni
Fra gli autori più frequentati dall'Istituto del Dramma Popolare Georges Bernanos vi torna per la terza volta (pari a lui solo T.S. Eliot) con una sua singolare opera L'impostura, scritta nel 1927 ma riportata recentemente al successo proprio da questa edizione teatrale di Pascal Bonitzer e Gerard Waycman, con la regia di Brigitte Jaques, le scene e i costumi di Emmanuel Peduzzi, le musiche di Oliver Dupin: gli stessi che firmano lo spettacolo sanminiatese.
Un'opera, ripetiamo, non nata per il teatro alla quale deve sottrarsi l'apporto della suggestione delle descrizioni e del linguaggio di Bernanos che, forse in misura maggiore di Sotto il sole di Satana (apparsa a San Miniato in una riduzione di Diego Fabbri), danno un inquietante spaccato di quella Francia conservatrice e reazionaria che si sarebbe poi identificata in Petain e lasciata soggiogare da Hitler. Ma in primo piano ci sono dei preti e la regista Brigitte Jacques mette subito le mani avanti: «I preti de L'impostura sono spariti del nostro quotidiano» dice nelle sue note. Quindi bisogna sostituirli con qualcos'altro: con dei politici, degli industriali, degli uomini di potere, anzi con delle loro degenerazioni: la P2 o la Piovra per restare in Italia e la cosa, allora, comincia a funzionare.
Si può capire, cioè, cosa sta in sottofondo alla crisi di coscienza tanto urlata e sbandierata dall'Abate Cènabre da risultare, appunto, una «impostura».
E' questo Cènabre il corifeo del malessere degli altri, il punto di fuga di tutta la vicenda, un satana colto, intelligente e insinuante che ha il potere di distruggere chiunque sfiora. Gli cederà, cosi, il povero, onesto, sprovveduto abate Chevance che vive sotto ti peso di un antico errore, il giovane giornalista Pernichon, raso dall'ambizione che lo condurrà al suicidio quando si troverà bruciato da tutti, un affamato barbone colto del suo decadimento fisico e morale e persino la giovanissima Chantal, allieva prediletta di Chevance che finirà gettata cinicamente dal padre politicante sotto la funesta influenza dal satanico, vincente finto sacerdote.
Il pessimismo di Bernanos coinvolge tutti e non si salvano nemmeno gli altri, scrittori, vescovi, politici o giornalisti che fanno da sfondo alla vicenda di cui emerge una sgradevolezza fisica, fino alia crudeltà dei vomiti, delle crisi di cuori, degli attacchi di epilessia, delle morti in scena che sono la materializzazione del male che divora e distrugge tutti i personaggi quasi alla Artaud.
L'adattamento della equipe francese si mantiene, quindi, a mezzo fra astrazione e cronaca e un cielo volutamente azzurro e pieno di nuvole fa da spietato contrasto con gli orrori che si vedono in scena. Ma, forse, tutto ciò non è sufficiente ad avvicinare la vicenda e le tematiche al pubblico che finisce con il subirne senza meno il suo sinistro fascino ma restandone lontano come da una cosa che avvenga su un palcoscenico.
Ci sarebbe, forse, voluta una mediazione drammaturgica che andasse più in profondità dalla pur precisa ed efficace traduzione di Luigi Lunari. Ambientarlo, ad esempio, nella provincia italiana, nei discussi Anni 50 quando maggiormente scricchiolavano i rapporti fra Chiesa e Società, pressate entrambe da tempi diversi. Ma sarebbe stato un altro spettacolo.
Straordinaria, comunque, l'interpetrazione di Roberto Herlitzka, nel ruolo del sulfureo Cènabre cui dà una tale porizione di umanità e di sofferenza da renderlo, a volte, meno satanico e peccatore di quanto, forse, prevedesse Bernanos. Mario Maranzana è l'istrionico barbone, Antonio Pierfederlci l'indifeso Chevance, Fernando Cajati, l'intellettuale preda del vizio e del cinismo, Franco Castellano, il tormentato giornalista suicida, insieme al Ventura, al Fiorentini, alla Gori, al Caretto, alla De Majo, tutti riuniti dall'interesse della platea che ha intuito gli abissi senza fine di Bernanos e li ha lungamente applauditi.

LUCIO ROMEO, Il Tempo 24 luglio 1989




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