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La recensione di Arnaldo Mariotti
 

La recensione

Scegliere Dio nel prossimo

«Sino a quando un fratello vive in catene, il nostro essere liberi è uno scandalo»: le catene sono quelle «di chi non è stato affrancato da Cristo», la schiavitù è quella del mondo che «lega con le sue tentazioni, i suoi tedii, il suo egoismo».
Per la sua Festa del Teatro — sette lustri di fedeltà all'impegno annuale di realizzare un evento scenico che proponga all'uomo d'oggi il ripensamento sul messaggio cristiano in forma non devozionale e edificante — l'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato ha messo in scena uno spettacolo il cui testo, Ramon il mercedario è stato steso appositamente da Luigi Santucci, ricavandolo da una «short story» inclusa nell'ultima sua fatica letteraria (Il bambino della strega). Nella festa dello scorso anno, Diego Fabbri ci consegnò la sua estrema, smisurata speranza con Al Dio ignoto; raccogliendo ora idealmente il «testimone» lasciato dal drammaturgo scomparso Luigi Santucci — cattolico di buona radice, come ebbe a definirlo un illustre critico — ci consente di verificare «de visu» quale vitalità abbia, anche da noi, la drammaturgia spirituale moderna.
Ramon il mercedario è la libera reinvenzione, in chiave lirico-popolare di parabola, della figura di Raimondo (Ramon) Nonnato, colui che fra i primi rispose all'appello dell'amico Piero Nolasco, fondatore, nel 1218, dell'Ordine religioso della Mercede per la liberazione dei cristiani schiavi dei maomettani. Nessun fine agiografico, sia chiaro, nella sintesi drammaturgica di Santucci: l'ottita in cui sono esaminati personaggio e vicende esclude così la biografia storica come la ricerca di episodi di santità. Santo senza aureola è questo Ramon che l'autore ha visto di dimensioni e di forza fisica eccezionali — fu estratto dal corpo della madre già morta; da qui la denominazione di «non-nato» — e non privo di quel «gaudio evangelico» che sta alla radice della visione cristiana di Santucci fin dal suo primo approcciò letterario («Misteri gaudiosi»). Ed è, Ramon, un uomo alla ricerca di una scelta di vita, che si trova a dibattere fra le incertezze, i travagli, le contraddizioni di un'anima che ha nel suo profondo la sete di Dio, e la vuoi estinguere operando anche in favore dei fratelli in Cristo.
Confessando «Io sono uno che verifica gli ingranaggi del destino», Ramon si presenta quale il suo autore lo ha voluto: pietra di paragone, in ogni epoca, per chi aspira alla liberazione in senso cristiano, avendo da superare gli ostacoli della umana insicurezza. Quella che del resto è anche in Ramon, il quale — nel finale del dramma di pretto sapore evangelico, allorché il Viandante che configura il Cristo di Emmaus raccoglie le sue estreme confidenze —, sembra conservarla nel tracciare un bilancio della propria vita: «Tutto ciò che ho fatto, l'ho fatto senza merito né umiltà... Un'ambizione sottile e balorda insieme, sottrarmi al mio destino... La libertà io non l'ho voluta perché mi faceva paura, era un teatro troppo grande per il mio personaggio».
Linguaggio che bene sarebbe stato sulla bocca di Bianca de la Porce, la fragile suora bemanosiana de I dialoghi delle Carmelitane; nel caso di Ramon, è soltanto l'umiltà che lo suggerisce. E l'esito, è diverso, poiché in luogo del martirio cruento che riscatta la creatura di Bernanos, sovviene qui la certezza data a Ramon dal Cristo-Viandante: «Qualcuno ti prenderà», cioè «più in alto», Iddio ti giudicherà e ti premierà secondo il tuo operato, che fu generoso e retto nella continua, anche se inconscia, imitazione di Cristo che ha «dato letizia» alla tua spirituale giovinezza.
Il dramma di Santucci, che non indulge davvero al facile apologismo, procede per «momenti», seguendo un itinerario episodico che tuttavia non disperde la pregnante materia che lo intride. L'avventura del protagonista fa coincidere fatti estemi ed intcriori trapassi: la vita quasi tutta consumata nel ventre ed ai remi delle «galere» che fanno la spola fra la riva cristiana di Spagna e quella barbaresca di Algeri — dapprima per affrancare la donna amata, poi per sostituirsi proprio a colui che, insidiando la promessa sposa, l'ha indotta a togliersi la vita (per «comperare» da lui «il suo pentimento»), infine per liberare un giovane schiavo cristiano — vede alternarsi nel protagonista amore profano, allegria, violenza, generosità, senso acuto della presenza del Creatore nei fratelli e nei nemici. Il suo costante tormento di non aver mai conosciuto il volto della madre si risolve infine nella identificazione del volto dell'amata (Maruca) con quello della madre comune, la Vergine Maria, quando si tratterà di scolpirne l'immagine così come il suo ultimo padrone gli aveva comandato.
Il linguaggio del testo, al di là di qualche compiacimento dettato dalle urgenze poetiche dell'autore, è efficace e ricco, adeguato sempre alila statura dei singoli personaggi. Il dramma ha momenti di alta tensione spirituale, e certo riesce a coinvolgere i suoi spettatori.
Non soltanto, ma — e questo merita dì essere rilevato, perché rappresenta a nostro giudizio la ulteriore conferma che Santuoci sa parlare, da cattolico, anche ai laici — esso convince e coinvolge anche chi deve farsene tramite per porgerlo dalla scena. Ecco perché il regista Lamberto Puggelli è riuscito, non soltanto con una impaginazione del testo talmente adeguata, ad apparire esemplare, ma anche con una impostazione dei personaggi che poco ha concesso all'esteriorità dei singoli, a configurare uno spettacolo di alto valore estetico e spirituale, così che la piccola contesa terrena si è trasformata in meditazione collettiva sulla libertà in senso lato.
Libertà come superamento della povertà dell'«io», come comunione con gli «schiavi» per inserire nel quotidiano l'insegnamento evangelico.
Anche gli attori hanno, tutti secondo la loro misura, vissuto quasi per assimilazione i loro personaggi: così il bravissimo Massimo Foschi, che di Ramon ha reso la statura morale e fisica con passaggi di stupenda efficacia; così Antonio Salines (Pedro Nolasco) che ha sempre evitato di sclerotizzare un personaggio che è l'alterego di Ramon; così i bravi Edoardo Borioli (Barbaresco), Carola Stagnare (Maruca), Gianni Esposito (Josè), Paolo Sinatti (il Catalano) e tutti gli altri.
Davvero da segnalare l'impianto scenografico di Luisa Spinateli!: efficace oltre che funzionalissimo, con i suoi quattro spazi coordinati (ai lati la raffigurazione, ispirata alla pittura catalana del tredicesimo secolo, delle città spagnole e barbaresche, sullo sfondo il mare che unisce e divide, al centro lo «spazio» volta a volta interno di una «galera» e luogo deputato per le altre azioni). Ed ottimo il commento musicale, ispirato ad antiche melodie iberiche.
Un successo caldissimo, con applausi anche a scena aperta, e lunghissimi al termine, anche all'autore che era presente. Lo spettacolo, che onora la manifestazione sanminiatese, verrà portato anche a Firenze e successivamente in altre città.

Arnaldo Mariotti, Avvenire, Milano, 19 Luglio 1981




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