Greene a S. Miniato
Per la prima volta nella sua storia la «Festa del teatro» di San Miniato ha replicato sé stessa, proponendo Il potere e la gloria di Graham Greene.
Certo non sono più i tempi del 1955, quando Luigi Squarzina riduceva per la prima volta il romanzo offrendolo all'interpretazione di Aroldo Tieri, ed il vescovo di San Miniato rompeva le relazioni con don Ruggini e l'Istituto del dramma popolare, facendo chiudere, sdegnato, le finestre del Palazzo vescovile sulla piazza-teatro di San Miniato. Eppure quel testo, affidato quest'anno a Giancarlo Sbragia, regista e interprete principale, non sembra aver sofferto gli anni. Aveva ragione Greene a sintetizzare in un Elogio della slealtà la sua ricerca di verità anche nei personaggi più segnati dalla vita. Il prete che lo scrittore inglese disegnava nel suo romanzo è un uomo che si è riposato su tutti gli scalini del degrado, ma che la vita costringe ad una fuga perenne: nel Messico degli anni '30, governato da una rivoluzione marxista e fortemente anticlericale, questo sacerdote non è solo l'ultimo prete a disposizione di un popolo che li ha visti uccidere o fuggire tutti. È padre di una bambina, è un ubriacone e un vigliacco. Greene non si accontenta di descrivere questo sacerdote ed il suo martirio annunciato, non si limita a riconoscere il principio «Sacerdos in aeternum», cerca la verità anche nei suoi carnefici.
Il persecutore del sacerdote è un giovane tenente irriducibile e intollerante nel suo idealismo. Ma proprio come il prete queto giovane ufficiale veste i panni sacerdotali di chi è investito di una missione. Che l'uno usi il calice l'altro il fucile per Greene non cambia la sostanza del loro impegno: entrambi hanno scelto di «sporcarsi le mani» e appaiono degni di rispetto in confronto alla quieta indifferenza borghese.
È la concezione di un cattolicesimo «cercato» piuttosto che «rivelato» quella che guida Greene su percorsi così difficili. È l'esigenza di incontrare «il Mistero della fede — come scriveva Carlo Bo — partendo dalla realtà del nostro tempo, fosse anche la più sordida». Nell'allestire questo spettacolo su una bella scena di Gianni Polidori (aveva firmato la scenografia anche nel 1955) Giancarlo Sbragia ha voluto mettere in evidenza tutta la forza di questo contrasto tra il sacerdote e l'ufficiale, interpretato quest'ultimo dal figlio Mattia. Lo spettacolo è classico nella concezione e sembra quasi votarsi al rispetto della parola scritta. Sottolineando emozione e commozione che ancora oggi le parole di Greene riescono a suscitare.
Il Giornale di Brescia, 21 luglio 1991
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