La recensione
Sua Santità a teatro
L'Istituto del Dramma Popolare, nello sforzo di rinverdire il prestigio dell'annuale ed estiva «Festa del teatro» (si partì nel lontano 1947), forse appannatosi nelle ultime stagioni, ha puntato in alto: l'autore di turno per questa trentanovesima edizione è un nome assai noto nel mondo contemporaneo, e non soltanto in quello cattolico, anche se si tratta di un Karol Wojtyla (oggi papa Giovanni Paolo II) non ancora ventenne, che scrive nella clandestinità, in una Polonia invasa e divisa, mentre sull'Europa, e sugli altri continenti, incombe lo spettro di una guerra generalizzata e tremenda.
Studente presso i salesiani, e operaio in una cava di pietra, Wojtyla compone dunque "Giobbe" (data e luogo del lavoro sono così indicati: Cracovia 1940 durante la quaresima), riflettendovi sofferenza e speranza del sua paese, identificando in quell'uomo «giusto davanti a Dio e agli uomini», ma sottoposto a inaudite, atroci prove, milioni di compatrioti e anche, in prospettiva, genti diverse, non meno vessate ed oppresse.
Per un buon pezzo, il testo tallona da vicino le pagine della Bibbia: il Signore, seguendo suoi misteriosi disegni, concede che Satana possa tormentare con mali spaventosi Giobbe, pur già carissimo ai suoi occhi. Dalla ricchezza e dalla fortuna, il meschino piomba nella miseria e nella disgrazia: distrutte le sue proprietà, sterminata la sua prole numerosa, infermi il corpo e lo spirito. Solo, abbandonato, (gli è rimasta appena la moglie, altrettanto afflitta), eccolo chiedersi e chiedere a Dio, invano, il perché di tanto punizione per colpe mai commesse. E non lo convincono gli argomenti dei vecchi amici, che (avendo del resto tardato a farsi vedere) lo invitano a piegarsi alla volontà divina, senza porsi troppi interrogativi.
Nel Libro di Giobbe, come sappiamo, lo stesso Signore finirà col rivolgersi direttamente allo sventurato, riaffermando la propria potestà assoluta, respingendo (se così possiamo esprimerci) ogni critica, ma in conclusione (cioè che, se vogliamo, risulta alla lettura parecchio sbrigativo) reintegrando Giobbe in salute e beni, e assicurandogli lunga vita (ma i figli morti rimangono tali).
Il giovane Wojtyla, per contro, innestava nel racconto biblico il messaggio cristiano, attraverso la promessa e l'annuncio, mediati dalla figura del profeta Eliu, della venuta del Redentore, di chi riscatterà col proprio sacrificio non solo Giobbe, ma l'umanità intera.
Commissionando la supervisione registica dell'allestimento a Krzysztof Zanussi, i promotori della «Festa del teatro » 1985 hanno inteso, crediamo, conferire ulteriore, comprensiva ampiezza a quel messaggio, Zanussi, infatti (e lo ha ribadito nella conferenza stampa dell'altra sera, introduttiva all'anteprima di Giobbe) rifiuta le etichette confessionali. E certo chi conosca la sua nutrita e geniale opera cinematografica sa come, per essa, possa parlarsi di temi e tensioni morali, spirituali, metafisici, più che religiosi in senso stretto.
Ma è successo poi, alla resa dei conti, che Zanussi e la regista-adattatrice Aleksandra Kurczab, sua connazionale, comunque attiva da tempo in Italia, abbiamo manifestato una fiducia limitata (ai confini della «non sfiducia» di cattiva memoria) nei riguardi del copione originario, del suo impianto da oratorio, delle sue scansioni solenni, che arieggiano anche nell'antica tragedia (sarebbe previsto l'intervento d'un vero e proprio Coro), della sua stessa capacità d'impatto sull'animo d'un pubblico di oggi. Il Giobbe del giovane Wojtyla è stato dunque sfrondato impietosamente, sì che tutta la rappresentazione, senza intervallo, dura circa un'ora. Ma, per altro verso, alla ormai scarna tessitura verbale si sono sovrapposti effetti spettacolari, insistiti, martellanti, talora divaganti. Ed ecco accendersi fuochi e fiamme, ecco scorrer giù per una delle gradinate che si affacciano sulla piazza del Seminario un nugolo tempestoso, ecco scrosciare per la scalinata parallela un'impetuosa cascata d'acqua (mentre su una terza scala si profilerà, in seguito, il cammino di Cristo, sotto la Croce, al Calvario).
Zanussi e la Kurczab hanno scelto come spazio scenico precipuo una larga striscia di suolo antistante gli edifici opposti a quello del Seminario (a ridosso del quale è sistemata la platea). Archi di porte definiscono un retroscena (la casa di Giobbe), pur esso utilizzato, con misura. Dove la misura manca (ci sembra) è nell'irruzione improvvisa
dell'«attualità», sotto forma d'una sinistra masnada di giovani motorizzati, che, a specchio della «caduta» di Giobbe, dovrebbero fornire l'immagine d'un diffuso crollo di valori, d'una violenza imperversante: brutalità e nefandezze, torture e processi sommari, e in dettaglio si distinguono l'estrema fase del martirio di Aldo Moro, il sequestro e l'assassinio di Padre Popieluszko. Cose che, con l'argomento specifico del dramma, c'entrano sì e no; ma che, soprattutto, non paiono molto nelle corde d'un artista come Zanussi, il quale lavora assai meglio (lo dimostra tutto il suo cinema) in «profondità» che in «estensione». La scena panoramica (come l'analogo schermo) non gli si addice. Semmai, un suo segno più preciso può cogliersi nella condotta degli attori: in particolare il Giobbe di Ugo Pagliai si carica, nei «primi piani», di una notevole intensità, che dà ben ragione e del dolore e della dignità dell'infelice. Paola Gassman dice con proprietà le parole profetiche di Eliu, e la compagnia nell'insieme, pur senza eccellere, funziona. Tony Cucchiara ha messo in musica, ed esegue con discrezione lui stesso, brani del prologo (che sarà anche epilogo).
Va sottolineato l'impegno dello scenografo D'Osmo, e del costumista Gianni Garbati; quest'ultimo offrendoci, nell'abbigliamento del protagonista, dei suoi familiari e amici, un attendibile e toccante quadro ebraico novecentesco, e quindi richiamandoci a quel genocidio per mano dei nazisti, che avrebbe rischiato altrimenti di restare un tantino in ombra, nella rivisitazione della favola di Giobbe, sospinta (come si è detto) verso giorni a noi più prossimi.
Gran folla, molti applausi. E si replica, solo qui, sino al 1° agosto.
Aggeo Savioli L'Unità, Roma, 27 Luglio 1985
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