Il teatro dell'impossibile
L'Istituto del Dramma Popolare nella sua annuale manifestazione teatrale ci ha presentato, sul sagrato di piazza del Duomo (con un giorno di ritardo dovuto al maltempo), nella realizzazione dello Stabile di Genova e con la regia di Paolo Giuranna, il dramma di un autore spagnolo poco noto in Italia: Antonio Buero Vallejo, che uno studioso del teatro iberico di questo secolo, il francese Jean Paul Borei, mette, in un suo saggio intitolato Théàtre de l'impossible, insieme con quattro «grandi»: Lorca, Benavente, Unamuno, Valle Inclàn. Certo, per valutare questo scrittore, che stasera era presente a San Miniato e che, alla fine dello spettacolo, è stato molto applaudito, insieme con il regista e gli interpreti, non basta la conoscenza d'un solo testo.
Cinquantenne, Buero Vallejo è, con le sue opere, uno dei protagonisti del rinnovamento del teatro spagnolo dopo la guerra. Ha vinto, con il dramma Historia de una esedera, nel 1949, il premio Lope de Vega, che lo lanciò; e successivamente diede alle scene una serie di testi fra i quali, leggiamo, sono da ricordare En la ardiente oscuridad (ambientato in un ospizio di ciechi), Hoy es ftesta, Un sonador para un pueblo, Las Meninas (protagonista Velasquez alla corte spagnola).
Il concerto di Sant'Ovidio, l'opera messa in scena a San Miniato nella fine, attenta traduzione di Maria Luisa Aguirre, è una delle sue ultime. Venne rappresentata in Spagna nel '62. Dopo, Antonio Buero Vallejo, che già alla fine della guerra civile era stato arrestato dalla polizia franchista e condannato a morte (pena che gli venne poi commutata), fu discretamente perseguitato, come scrittore, dalla censura, soprattutto per le sue prese di posizione, per le sue dichiarazioni in favore dei condannati politici.
Notizie che si danno per far capire al lettore come non ci si trovi di fronte a un intellettuale disimpegnato; ma a un uomo che nell'amara condizione di non-libertà del suo paese si batte, dalla tribuna del teatro, per dare al pubblico una consapevolezza, presentandogli delle parabole abbastanza trasparenti, escogitando simboli piuttosto vistosi. Così, in questo Concerto di Sant'Ovidio dove la condizione della cecità è considerata appunto in chiave allegorica (come già avveniva nell'altro dramma intitolato En la ardiente oscuridad). Quello dei non veggenti, presi a simbolo degli inconsapevoli (e, in questo caso, degli oppressi), è un vecchio tema evangelico, passato, caricandosi d'ombre, in certa letteratura barocca. E ci si ricorda, per l'occasione, anche di Ghelderode, il poeta fiammingo che pure scrisse il famoso dramma sui ciechi e che con la Spagna dell'Escurial ha legami fantastici, contatti d'incubo.
La storia è quella appunto d'un gruppetto di ciechi che, nella Parigi di prima della Rivoluzione, viene assoldato da uno speculatore perché dia esilarante spettacolo di sé producendosi in un concertino di violino e canto in un baraccone della Fiera di Sant'Ovidio. La trasformazione dei ciechi in pagliacci e il loro progressivo riscatto, la presa di coscienza dell'offesa alla dignità umana che si è consumata nei loro confronti, sono rappresentati tramite l'evoluzione del più sensibile del gruppo, David, che ucciderà alla fine l'impresario sfruttatore. Questa è la parte più debole del dramma, qui si smargina nel «mèlo», anche perché c'è un personaggio femminile che stempera alla fine una tenerezza un po' dolciastra su un paio di questi infelici. Il significato autentico del dramma, la sua alta e nobile astrazione si recuperano in ultimo, al di là di questi tentennamenti naturalistici: quando cioè viene alla ribalta Valentino Hauy, uno degli inventori dell'alfabeto per i ciechi, a profetizzare il riscatto e l'emancipazione dei «non veggenti». E chi ha orecchie per intendere intenda.
È un testo dunque che si può prendere anche per una innocua parabola su come i ciechi impararono a leggere; ma il gioco allusivo che c'è sotto è inequivocabile. È quel gioco «dell'impossibile» di cui parla Jean-Paul Borei. L'impossibile è l'apice della tragedia e sta accanto all'assurdo. È quell'impossibile che l'uomo, per essere veramente tale, deve affrontare e vincere. Il linguaggio, specie nella prima parte, è asciuttamente teatrale, va al sodo degli effetti e delle significazioni. Dopo, come s'è detto, si sfilaccia un poco.
Ci sbrigheremo di questo spettacolo in poche righe.
Non perché sia brutto o tirato via, per carità; ma perché è semplicemente funzionale, senza eccessivi voli ma realizzato con buon mestiere; e anzi, tutto abbastanza curato: che è già molto in questa stagione. Le scene e i costumi sono di Gianfranco Padovani, le musiche di Fernando Mainardi (che forse avrebbe potuto inventare un motivetto più beffardamente significativo per il concerto dei ciechi). Fra gli attori si distinguono Omero Antonutti, per l'adesione anche mimica al personaggio del cieco David, il cieco «che vede»; Ivo Garrani, che con corposa evidenza naturalistica è l'impresario sfruttatore, Lucilia Morlacchi, che cerca di dare concretezza a un personaggio un po' di maniera; e poi Gianni de Lellis, Maggiorino Porta, Arnaldo Bellofiore, Marzio Margine e lo stesso regista Giuranna.
Roberto De Monticeli, Il Giorno, Milano, 27 Agosto 1967
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