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Il Tirreno - La recensione di Rizza
 

L'apostolo degli Indios ai tempi di Colombo
Quel mondo nuovo scoperto da Colombo alla fine del Quattrocento pose alla «civiltà» occidentale tutta una serie di interrogativi e di assilli che ancora oggi si affacciano con prepotenza alla nostra coscienza. La conquista di un territorio, la sottomissione di un popolo e la conseguente espropriazione sia economica che culturale, devono in qualche modo essere giustificati da una presunta superiorità antropologica quanto da una incrollabile fede nella volontà divina, che, per così dire, impartisce «questi ordini».
All'inesauribile rincorrersi del rapporto fra storia e potere, in bilico fra machiavellismo e spiritualità, guarda l'opera letteraria di Reinhold Schneider, scrittore tedesco di cui ricorre quest'anno il centenario della nascita, che l'Istituto del dramma popolare di San Miniato ha scelto come testimone della sua 57esima Festa del Teatro.
Così in questi giorni sulla piazza del Duomo si rappresenta di Schneider Bartolomeo de Las Casas, sorta di cronaca giudiziaria e riflessione morale in diretta dalla Spagna del Cinquecento, che Roberto Mussapi ha tratto dal romanzo Las Casas vor Karl V, in cui si racconta della crisi vissuta dal protagonista (compagno di viaggio di Colombo nella sua seconda traversata per curare gli interessi della famiglia che lì aveva alcuni possedimenti) che rinuncia a possessi e affari, rimette in libertà gli indigeni alle sue dipendenze, diventa sacerdote e difensore di quelli oppressi e maltrattati, tanto da essere ricordato come l'apostolo degli Indios. Di questo «scriteriato» comportamento Bartolomeo dovrà rendere conto al ritorno in patria, sottoposto a una specie di disputa-processo davanti all'imperatore, in cui gli verranno contestati i suoi metodi «umanitari». Tema di grande respiro e di solenne portata esistenziale (ma anche squisitamente politico in tempi di guerre preventive al grido di «democrazia e capitale lo vogliono» e di risposte altrettanto estremiste di natura religioso fideistica) che la regia di Giovanni Maria Tenti riduce a una metodica lettura dei vari punti di vista in corretta versione radiofonica ma senza stereofonia.
Nei panni di Bartolomeo si cala un Franco Graziosi austero e ieratico, fin troppo dimesso, con Renato De Carmine, Walter Toschi, Beppe Chierici e Franco Sangermano a fargli da contraddittorio e supporto. La scena di Daniele Spisa seziona un colonnato ligneo (tolda della nave e aula di tribunale) con trasparenze sul fondo gonfio di marosi e distese oceaniche. Repliche fino al 23.
Gabriele Rizza, Il Tirreno, Livorno, 20 luglio 2003




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