Un Dio costretto al miracolo dalla grande forza della fede
Una grande «Festa del teatro» quest'anno a San Miniato. L'Istituto del dramma popolare ha celebrato la sua quarantunesima edizione con la messa in scena del Capanno degli attrezzi, dramma di intensa ed elevata spiritualità dello scrittore inglese Graham Greene. Convertitosi al cattolicesimo nel 1927 all'età di 23 anni, Greene è autore di alcuni tra i romanzi più popolari della narrativa contemporanea. Al teatro, nonostante una prima e precoce esperienza ad appena 16 anni, si accostò soltanto dopo un lungo itinerario narrativo.
Il capanno degli attrezzi è, infatti, la sua seconda opera teatrale e fu rappresentata per la prima volta a Broadway nel 1957. In Italia il dramma di Greene conta una sola realizzazione avvenuta piuttosto in sordina nel 1958 a Milano. L'edizione sanminiatese, pertanto, può essere a buon diritto considerata una novità.
«Il testo di Greene - come ha scritto Marco Bongioanni direttore artistico dell'Istituto del dramma popolare - si basa sulla problematica della fede che nasce dall'evidenza di un miracolo». Al centro della vicenda, condotta con toni quasi da giallo, il mistero su quanto un giorno accadde nel capanno degli attrezzi da giardinaggio di casa Callifer. La lunga ricerca della verità, circa un atto di cui nessuno vuoi parlare, prende le mosse dal capezzale del vecchio Callifer. Mentre la famiglia è riunita intorno al moribondo capostipite, convinto materialista seguace di Darwin, compare improvvisamente il figlio minore James, adesso quarantenne, avvertito delle condizioni del padre dalla giovane nipote, nonostante il parere contrario degli altri parenti. James torna alla casa paterna da dove era fuggito anni addietro in preda ad incubi oscuri di cui non è mai riuscito a capire la natura. Adesso la madre Mary gli impedisce perfino di rivedere per l'ultima volta il vecchio padre. Turbato dall'atteggiamento dei parenti e dal proprio stato psicologico, James apprende dell'esistenza di un anziano zio prete alla cui vicenda umana è misteriosamente legata la propria.
Padre William Callifer, emarginato anch'egli dalla cerchia familiare per la sua scelta religiosa, vive ora in una squallida canonica circondato da bottiglie di whisky. Ormai alcolizzalo, William continua ad esercitare meccanicamente il proprio ministero in un'indifferenza totale nei confronti di Dio e degli uomini. James riesce a scovare lo zio e finalmente ricostruisce quello che trent'anni prima è successo nel capanno degli attrezzi: intimorito dalle minacce del padre per i suoi legami con lo zio sacerdote, all'età di 14 anni andò nel capanno del giardino e si impiccò. Là lo aveva trovato il vecchio giardiniere che dopo aver tentato inutilmente di rianimarlo lo diagnosticò morto. Subito dopo accorse lo zio William che si mise a pregare accanto al corpo senza vita del ragazzo. «Ho pregato - dice Padre Callifer nel testo -, ero un prete modello allora, (...). Inoltre io ti volevo molto bene. (...) Avrei dato la mia vita per te... ma cosa potevo fare? Potevo solo pregare. Probabilmente avrò offerto qualcosa in cambio, qualcosa a cui tenevo molto. No l'alcool. Allora io credevo veramente di amare Dio. Ho detto... ho detto: Signore, fa che viva. Io gli voglio bene. Fa che viva, Io ti darò tutto quello che vuoi se lo farai vivere. Ma cosa dovevo offrirgli? Ero un pover'uomo. Ho detto prenditi ciò che amo di più. Prendi... prendi...». Non riuscendo a ricordare interviene James: «Prenditi la mia fede, ma lascia che viva».
Il finale, con James che torna a casa per riappacificarsi con madre e moglie dopo aver finalmente trovato qualcosa in cui credere e che dia valore alla propria esistenza, diventa quasi inutile, didascalico.
Nell'intelaiatura del Capanno degli attrezzi è nella scena che si svolge tra zio e nipote che Greene tocca l'apice, il punto drammaticamente più intenso e sconvolgente: Dio, in quel capanno, fu costretto al miracolo dalla grande forza della fede. Quanto Greene concettualmente afferma in questo dramma supera anche il biblico sacrificio di Isacco. Per quel povero prete ciò che più conta non è una persona, ma la fede, anche se commette l'errore umano di barattarla proprio per una persona. Ma al di là di quella resurrezione fisica richiesta dal dramma, Greene, come è stato sottolineato, descrive il vero grande miracolo di numerose resurrezioni morali e spirituali: tante quante possono essere i «morti» nel gran «capanno» del giardino umano.
Opera di grande intensità spirituale, dunque, questo Capanno degli attrezzi di cui il regista Sandro Bolchi, chiamato a San Miniato dopo anni di assenza dalle scene, ha rispettato tutta la forza drammatica con una regia da «direttore d'orchestra», tesa a privilegiare i ritmi della vicenda, ma anche a valorizzare alcuni «a solo», come quello di Padre Callifer a cui ha dato voce, corpo e sentimenti un grande Mario Maranzana in una scena che, pur di breve durata, rimarrà memorabile. Ma quest'anno, l'Istituto del dramma popolare, a differenza di altre volte, ha saputo mettere insieme un'intera compagnia di ottimo livello con in testa un bravo Carlo Simoni, che ha trasmesso al pubblico tutte le angosce e i tormenti di James Callifer, e una Regina Bianchi che da par suo ha tratteggiato la triste e rassegnata madre Mary. Da ricordare, comunque, anche tutti gli altri interpeti: Giorgio Bonora, Joyce Leoni, Margherita Guzzinati, Enrico Baroni, Sergio Fiorentini, Rodolfo Santini, Rina Franchetti e Micaela Giustiniani.
Per la messa in scena del dramma di Greene è stato scoperto e sfruttato; un altro angolo della bella piazza del Duomo di San Miniato, quello a lato della cattedrale che con i suoi vialetti di tigli ha offerto un suggestivo scenario naturale per il giardino di casa Callifer, con gli spettatori a «spiare» come da dietro un'immaginaria siepe lo svolgersi del dramma.
Il pubblico ha applaudito convinto e le riserve espresse da alcuni critici nei giorni scorsi appaiono dettate da qualche preconcetto di troppo.
ANDREA FAGIOLI, Toscana Oggi 26 luglio 1987
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