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La Nazione - La recensione di Paolo Lucchesini
 

San Miniato in crisi recupera Greene
Altri tempi, altri uomini, altre passioni: anni tumultuosi, fervidi di idee, un confrontarsi febbrile intorno alle scelte teatrali, sempre in caccia di nuovi testi prestigiosi. L'Istituto del Dramma Popolare era un laboratorio propositivo, cittadella e punto di riferimento dell'intellighentia cattolica, luogo di dibattito, spesso aspro. Era il 1955, l'anno de Il Potere e la gloria di Graham Greene, un dramma inquietante, tratto dall'omonimo romanzo, in scena già da due stagioni a Parigi. Su suggerimento di Diego Fabbri, don Ruggini, anima dell'istituto, insieme con Silvio D'Amico, riuscì a superare una serie di impedimenti da parte delle gerarchie del clero che ritenevano scandalosa la vicenda dell'unico prete rimasto nel Messico rivoluzionario «piccolo uomo impastato di orgoglio e di paura, di peccato e di eroismo» abituatosi a bere e a coricarsi con una donna. Ruggini, comunque, vinse la sua battaglia, vide in scena il dramma di Greene — un cast straordinario: regia di Squarzina, scena di Polidori, musiche di Carpi, nei ruoli principali Tieri, Garrani, Mario Ferrari, Piefederici, Graziani, Moschin, Rissone, Bianchini... — salutato dalla critica plaudente. Lo spettacolo, però, non piacque al vescovo di San Miniato che costrinse alle dimissioni don Ruggini: si avvertivano già i primi duri contrasti fra cattolici illuminati e conformisti.
«Ma come! — si rammaricava Ruggini — In Italia, c'è una istituzione che si affatica a introdurre nel teatro un'aria più respirabile, un'aria cristiana: tutto il resto è pressoché monopolio dei comunisti e delle riviste dalle 40 gambe 40, e questa unica istituzione cattolica, tirata avanti con tanti stenti da cattolici, con all'attivo dei veri successi, non solo teatrali, ma religiosi e morali, deve avere addosso le ire ringhiose e concertate di Vescovi e dell'organo ufficiale della Santa Sede!». E profetava: «Il fatto è che noi siamo destinati a morire perché in vita non ci siamo mai voluti legare al carrozzone della Marozia [una potente patrizia romana del 900] del XX secolo, cioè del prof. Gedda. E questa è tal cosa che ci condanna al boicottaggio del cattolicesimo ufficiale e a condurre, a forze impari, una disperata battaglia da assediati».
Insomma don Ruggini, che pure fu reintegrato dopo qualche tempo, già nel 1955 scorgeva un futuro tutt'altro che roseo per l'istituto. Il serbatoio di testi spirituali si sarebbe inaridito, una volta esaurita la produzione specifica degli Eliot, Claudel, Greene, Bernanos, Fabbri. Si sarebbe dovuto ricorrere ad autori di nome come De
Ghelderode, Luzi, Wiesel, Wojtyla, Mann, Strindberg. Ma non si sarebbe fatto uno sforzo di fantasia avvicinando i nuovi autori, ignorando l'evoluzione del teatro e della società. Ed eccoci a oggi con l'Istituto che non è in grado di fornire una novità, come vorrebbe lo statuto, e si aggrappa proprio a Il Potere e la gloria di trentasei anni fa. La scelta — o meglio il ripiego — è stata giustificata in mille modi, ma la nostra impressione, e non solo la nostra, è che il festival sammiatese sia giunto a fine corsa. Solo rifondandolo artisticamente e strutturalmente, non chiudendosi in se stesso, accettando contributi laici, documentandosi su quanto è accaduto da anni ed accade nel contesto teatrale nazionale, promuovendo iniziative tendenti a interessare la fiorente nuova drammaturgia, l'ente potrà riassumere il suo ruolo originale. In quanto al remake del dramma di Greene non c'à molto da dire. Onestamente lo storico adattamento di Cannan e Bost ci è parso terribilmente invecchiato, meno teatrale, più televisivo. Né la regia di Giancarlo Sbragia è andata oltre una lettura piana, convenzionale, cercando l'effetto e trascurando una maggiore analisi introspettiva dei personaggi. Spettacolo coreografico, ma di scarsa emozionalità. Bella la scabra scena lignea di Giovanni Polidori montata su un girevole che consente tre diversi ambienti. Costumi di Alessandro Ciammarughi, musiche di Luciano Francisci. Giancarlo Sbragia ha sostenuto con abilità e alcuni sprazzi di genio (sapienti toni ironici) il ruolo del prete maledetto, ubriacone, peccatore, uomo fra gli uomini, ma unico uomo di Dio in una plaga disperata, un Cristo malato, controverso. Non entusiasmanti il tenente marxista di Mattia Sbragia, il dentista di Elio Veder, il capo della polizia di Pino Michienzi, il cugino del governatore di Camillo Milli e via via tutti gli altri. Cordiali accoglienze.
PAOLO LUCCHESINI, La Nazione, 20 luglio 1991




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