Fiorenza degli spiriti
E' andata in scena a San Miniato, dopo l'anteprima per i critici, Fiorenza di Thomas Man. Per illustrare il significato dell'opera, incentrata sul rapporto fra religione e cultura, il germanista Marianello Marianelli ha scritto una lettera immaginaria di Manu a Carlo Bo, ossia allo studioso italiano che a più riprese, dagli anni '30 (in « Letteratura come vita ») fino alla polemica con Vittorini (« Cristo non è cultura ») si è occupato dell'incontro-scontro tra lo spirito cristiano e l'umanesimo rinascimentale, sostanza del dramma « fiorentino » dello scrittore tedesco.
Illustre professore, la ragione che m'induce a scriverLe è forse la stessa per cui è stato invitato alla prima rappresentazione italiana della mia Fiorenza: anche per me Lei è un antico gran confessore di ogni rapporto fra poesia e religione. San Miniato è, mi dicono, se non una montagna, un poggio, come la Sua Urbino, incantato e adatto a speciali esperienze dell'anima. Per questo mi piace che sia vicino a Firenze dove già vagheggiavo di venire quando, nei primissimi mesi di questo secolo, scrivevo a mio fratello: « Se potessi venirci — realizzerei il sogno dell'anima mia ». (Ci venni davvero, dieci anni prima di Lukàcs, stavo in via Cavour 11, cinque lire al giorno).
Non scrivo per mettere le mani avanti a Lei o nel lavoro del regista. Nessuno, del resto, conosce meglio di me il carattere difficile, la voluta ambiguità del rapporto fra Spirito e Bellezza di questa non a caso mia unica figlia teatrale. So i grattacapi che mi ha dato e può darmi coi critici di ogni fede. Questa lettera vuole chiarire a Lei e a me stesso se e come questa figlia del teatro e del rinascimento fin da siede possa essere ancora vitale per quanto datata. Quanto datata è già provato dal fatto che la vicenda del mio dramma ha la sua matrice in una novella, ambientata, invece che a Firenze, in una città tedesca, Monaco, lieta di presentarsi come un calco architettonico di Firenze. In quella città, negli anni delle mie più divertite (e non tutte dicibili) passioni, visitai una mostra, organizzata dalla « Secessione », di copie di scultori toscani da Jacopo a Mino.
Fu così che raccontai in quella novella, Gladius Dei (1902), di un giovine cristiano radicale, di nome, vedi caso, Girolamo che tenta di convincere un antiquario a togliere di vetrina una conturbante Madonna (primo abbozzo di Madonna Fiore) e finisce sbattuto fuori dal negozio. Ora, il dramma, da me prima intitolato Il re di Firenze, è, al tempo stesso, la rivincita di quel cristiano mingherlino e una mia sfida teatrale.
« Il doppio senso del titolo — scrivevo infatti allora a mio fratello — è voluto. Cristo e Fra Girolamo sono una cosa sola, cioè la debolezza che diventa genio e perviene al dominio della vita ». Oggi posso, devo confessarLe che per vincere quella mia sfida teatrale commisi tre « peccati » più o meno felici ma forse vitali. Il primo fu nei confronti del cristianesimo e dei suoi prediletti, cioè i deboli, gli umiliati e offesi. Il mio Savonarola è, infatti, debole, non umile. Lui e il Magnifico Lorenzo sono, l'ho detto, due « fratelli nemici », fratelli in quanto « artisti » (uno della Bellezza, uno dello Spirito), post-nietzcheani, ambiziosi (gli umiliati, i veri « deboli » di Cristo non hanno di queste ambizioni) di conquistare la Vita ovvero Madonna Fiore ovvero il popolo di Firenze. In realtà sono due viventi metafore dell'« eroismo della debolezza » (Mittner) di noi artisti moderni.
(Per vincere, certi « deboli » sanno usare astuzie che i « sani » nemmeno si sognano).
Pure, considerando che queste « pietose » o ambiziose alleanze (come questa di Girolamo) fra gli artisti e gli offesi veri sono un peccato ricorrente e vitale nella letteratura moderna, da Rilke a Pasolini, non crede, Senatore, di poter assolvere un poco anche me?
Confesso altresì di avere abusato del Rinascimento; ma non di quello autentico, che non conosceva antitesi fra Spirito e Bellezza, bensì di quella moda neo-romantica e « rinascimentosa » (il vostro Garin dice che Firenze non aveva bisogno, allora, di aloni romantici; ma questo non toglie che ci sono stati) che il secolo scorso scaricò sul nuovo, sulle spalle, ad esempio, di D'Annunzio. In fondo io denunciai quella moda per primo col mio frate fosco e ardente, prima di Hoffmannsthal che c'era dentro fino ai capelli (eppure a Strauss che gli chiedeva: « Non avrebbe un bel tema rinascimentale? Un Cesare Borgia, un Savonarola, ebbri di passione stanno in cima ai miei pensieri », rispondeva: « Credo che nessuna epoca nel suo contenuto sia a noi più lontana del Rinascimento. E nessun costume avrebbe meno effetto di quei drappeggiamenti rinascimentali »). Ora, io spero — mi dica se sbaglio — che lo Spirito e la Bellezza di quel mio dramma possano essere considerati maschere storiche di una dialettica più vasta e attuale, quella fra cultura e Cristo che Lei conosce bene almeno fino da quando rispose asciutto (forse troppo) a Vittorini che « Cristo non è cultura ».
Ho fatto, infine, torto a me stesso. Nello stesso anno 1907 in cui, col mio Saggio sul teatro, distinguevo il linguaggio letterario da quello teatrale, autonomo, esibivo con la « prima » di Fiorenza un testo, o contesto dialogico, lussureggiante di letteratura, opposto alla prosa precisa, « nordica » già codificata nel mio primo romanzo. A quella invece rimasi fedele per motivi, mi permetta dire, anche cristiani perché ero, sono convinto che il romanzo dove l'uomo viene analizzato, per non dire « crocifisso » silenziosamente, sia pure con i chiodi dell'ironia, alla sua coscienza, è più legittimo erede e amministratore del nostro travaglio quotidiano che non la scena.
Pure, finché dura un teatro come quello di San Miniato, dove il gioco teatrale coinvolge un tremendo gioco d'idee, vuoi dire che tutto non è ancora scaduto a quella dimensione di universale « teatralità » dilagante (in fondo, l'opposto del vero teatro) in cui cultura e Cristo, bellezza e spirito rischiano di vanificarsi. Questo non è poco, specie oggi nel Suo bel paese.
Suo Thomas Mann
Marianello Marianelli La Nazione, Firenze, 12 Luglio 1986
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